mercoledì 19 maggio 2010

Angelo Panebianco 
e la “fine del socialismo della spesa”



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Prima di tutto è necessario spiegare cosa intende Panebianco per socialismo della spesa.

Il socialismo europeo è stato, prima di tutto, e soprattutto, uso della spesa pubblica per fini di ridistribuzione, ampliamento costante di quelli che, nel linguaggio socialista, venivano chiamati «diritti» (ossia, l’ accesso alle prestazioni sociali dello Stato) in nome di un principio di uguaglianza. Ma se tutto questo diventa economicamente insostenibile, se persino il carattere universale delle prestazioni di welfare (che comunque, ancorché ridimensionate, sopravviveranno) rischia di essere messo in discussione a causa della scarsità delle risorse e della conseguente necessità di scegliere i soggetti a cui continuare a erogare le prestazioni e i soggetti da escludere, il socialismo finisce per perdere gran parte della sua ragione sociale.

Va notato innanzitutto l’approccio realista: il socialismo come fattore redistributivo collegato alle risorse disponibili. Uno schema concettuale accettabile sul piano analitico. Ma che non può essere ridotto a unico elemento interpretativo, soprattutto sul piano sociologico. E per una ragione molto semplice: spingere l’acceleratore analitico sul nesso risorse/redistribuzione, sottovaluta la questione del consenso sociale.
Perché, per usare ancora il linguaggio di Panebianco, se è vero che il socialismo della spesa respingendo i tagli mostra di credere "nell’uovo oggi”, è altrettanto vero, che con i tagli cui si accompagna la promessa mercatista “della gallina domani”, si rischia di costruire un consenso “a breve” anche intorno a quell' idea di mercato che sembra stare così a cuore all'editorialista del "Corriere della Sera".
Il vero punto della questione - che sfugge a Panebianco - è come costruire intorno alla “welfare austerity” un consenso sociale di lungo periodo. E dello stesso tipo di quello sviluppatosi nel “glorioso trentennio” intorno all’ idea welfarista. Perché gli uomini non obbediscono “a comando”… Non sono solo ciò che mangiano, ma soprattutto ciò in cui credono. E liberamente. I "diritti sociali" non sono un optional ma un valore e un fattore di aggregazione e consenso sociale, di cui si deve tenere conto sul piano politico e analitico.
Pertanto non sembra sufficiente, come invece ritiene Panebianco, che i “socialisti della spesa” si impongano di “riscrivere di sana pianta la propria ‘ragione sociale’, i propri fini politici” per fare un piacere a mercati che non rispettano nessuno: né i politici progressisti né quelli conservatori, né tantomeno la gente comune... Il che significa che anche i “conservatori” devono riscrivere la loro, di ragione sociale. Puntando su un conservatorismo equilibrato. E di sicuro non mercatista a oltranza: thatcheriano, se si vuole.
Certo, senza per questo dover sposare le ragioni del socialismo della spesa. Insomma, se proprio vogliamo discutere di conservatorismo, dobbiamo parlare di un conservatorismo capace di andare oltre la dicotomia uovo oggi (socialismo della spesa) gallina domani (mercatismo neoliberista) alla quale Panebianco sembra ridurre la dialettica politica. Ogni dialettica politica.
Un esempio di conservatorismo equilibrato è possibile coglierlo in una figura storica del conservatorismo inglese Harold Macmillan. Racconta Henry Kissinger:
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“[Macmillan] durante lo sciopero dei minatori del 1984, mi disse che, pur rispettando la signora Thatcher e comprendendo ciò che voleva fare, non avrebbe mai avuto il coraggio di condurre una lotta definitiva con i figli di uomini che si erano sacrificati altruisticamente nella prima guerra mondiale” .
(H. Kissinger, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer, Milano 1996, p. 462)

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E' il caso di aggiungere altro?

Carlo Gambescia

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