giovedì 10 dicembre 2009

Il libro della settimana: Guido Caldiron, La destra sociale da Salò a Tremonti, Manifestolibri 2009, pp. 160, euro 15,00.

http://www.manifestolibri.it/vedi_collana_indice.php?id=520



E’ mai esistita in Italia una destra sociale? Di sicuro è stata teorizzata. E qui basti ricordare il lavoro intellettuale di Giano Accame. Uomo colto e intelligente, fascista e missino, ma sempre disposto a parlare al mondo e soprattutto ad ascoltarlo.
Ma nella pratica politica è esistita? Difficile rispondere. Anche perché sullo sfondo della destra sociale italiana post-missina, quella di Alemanno, oggi confluita con An nel PdL, continua a pesare come un macigno l’eredità del fascismo di sinistra: quello sociale. E del suo controverso rapporto di amore-odio con il capitalismo italiano. Di amore, seppure obbligato, del fascismo regime (corporativo); di odio del fascismo movimento (socializzatore). Eredità perciò impossibile da conciliare - se non nei termini di un’annacquata destra sociale - con le politiche economiche di regolazione comunque non statale, di Tremonti e Sacconi, ministri, per così dire, di sicura fede capitalista.
Crediamo perciò che il primo compito di chiunque si occupi dell’argomento sia quello di scrivere una storia della destra sociale, capace di individuare i legami socioculturali, ma in termini di somiglianze e differenze, tra un fascismo sociale, anticapitalista (nella sua “sinistra”), e una destra liberalconservatrice, magari all’occasione Law and Order, ma democratica e soprattutto filocapitalista, nel senso, come notava Giano Accame, “di non voler tirare il collo alla gallina dalle uova d’oro”.
Sotto questo aspetto il pur vivace e ben scritto volume di Guido Caldiron, La destra sociale da Salò a Tremonti (Manifestolibri 2009, pp. 160, euro 15,00), non coglie il punto. Perché guarda più alle somiglianze che alle differenze tra fascismo, neofascismo postfascismo “destro-sociale” da una parte, e destra liberalconservatrice, in versione neo-liberista e neo-sociale (alla Tremonti) dall’altra. Ovviamente l’attenzione per le differenze, almeno per quel che ci riguarda, non significa che debbano essere sottaciute le spiccate frequentazioni dittatoriali e razziste del fascismo e del neofascismo, tuttora vive in alcune lunatic fringes. Ma più semplicemente, sottolineare le differenze può servire a ristabilire una verità storiografica: che il fascismo, e in particolare quello di sinistra, era sicuramente anticapitalista, mentre l’attuale PdL che raccoglie anche spezzoni sociali di postfascismo e di destra liberalconservatrice è risolutamente filocapitalista. E legato a una visione non dirigista dell’economia e della società, ma neppure totalmente neo-liberista. E che comunque - ecco il punto - nulla ha in comune con il corporativismo fascista né tantomeno con il “Manifesto di Verona”. Tra fascismo, nelle due versioni, e PdL, insomma, non c’è continuità. Di mezzo c’è una “bella signora” che si chiama democrazia…
Caldiron, prova a superare questo scoglio storiografico, unificando concettualmente le varie destre italiane (liberalconservatrice, sociale e leghista) sotto la categoria del neopopulismo, già di per sé troppo “all inclusive”. Perché, tanto per dirne una, tale “etichetta” potrebbe essere estesa anche a certa sinistra giustizialista. Ma Caldiron punta sul centrodestra anche i riflettori, dalla luce probabilmente accecante, di una teoria post-moderna della comunicazione politica, come quella dello storytelling. Teoria che scorge nel potere mediatico il motore di nuova fabbrica del consenso di massa, sapientemente azionata dalla destra “all inclusive” di cui sopra. La quale userebbe una tecnica basata sulla creazione di stereotipi mediatici di facile comprensione popolare: il “negro approfittatore”, l’ ”immigrato con il coltello tra i denti”, eccetera. Ovviamente, a colpi di spot pubblicitari e di slogan gridati da sparute, e tra di loro rissose, lunatic fringes, il neo-populismo, nell’ottica di Caldiron, potrebbe addirittura fare bingo. Nel senso di assolvere, tra le macerie di una rediviva Repubblica di Weimar mondiale sconvolta dalla crisi economica e prigioniera di una invasiva cultura mediatica, il ruolo che le numerose e feroci truppe nazionalsocialiste di Hitler, usando ben altri forme di persuasione, svolsero tristemente negli anni precedenti al 1933.
Lasciamo decidere ai lettori, sulla base delle loro preferenze ideologiche, circa la consistenza teorica e metodologica di questo approccio.
Ma c’è un’altra questione, e di fondo. Caldiron non pare credere nella buona fede dell’anticapitalismo fascista (di sinistra o meno), né, attenzione - cosa ben più grave - del riformismo di destra, sociale o liberale, e probabilmente - cosa di gravità assoluta - neppure di qualsiasi riformismo, anche di sinistra.
Semplificando al massimo, sembra che il pur colto giornalista di “Liberazione”, sia rimasto fermo, suo malgrado, alla tesi terzo-internazionalista. Che scorgeva nel fascismo (rosso o meno) e nel riformismo democratico a tutto campo (dalla destra alla sinistra) due forme di dittatura capitalistica: la prima manifesta, la seconda occulta. Ma così non si scivola forse nello storytelling, caro a certa sinistra? Di un capitalismo gigantesco e terribile, che finisce per calpestare tutto e tutti, come il King Kong cinematografico?
Anche qui, ai lettori l’ardua sentenza.



Carlo Gambescia

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