lunedì 18 marzo 2024

Macron e il nodo alla cravatta

 


Invecchiando si peggiora o si migliora? In che senso? Diciamo della lucidità intellettuale. Dipende. Un professore se continua a studiare, evitando di sproloquiare su tutto e di accumulare potere accademico ed extra accademico, pseudo potere diciamo (perché come cambia il vento politico o si fa un errore deferenziale si torna a casa), può ancora dare molto alla sua disciplina. Anche al dibattito pubblico.

Se invece continua a comportarsi da arrivista come quando aveva trent’anni, rischia di perdere la bussola, perché il fisico non regge più come una volta. Si devono tenere troppe cose insieme. Ad esempio la maschera da vero professore e la deferenza verso i protettori politici.

Quindi ci si affatica e si scrivono stupidaggini. O ancora peggio banalità. Magari si perde perfino il filo dell’editoriale. Il che può essere anche sintomo di qualche grave malattia degenerativa che può affacciarsi quando le tempie ingrigiscono.

Ad esempio, dopo la lettura di un articolo di fondo su Macron, la prima cosa che abbiamo pensato è che il suo autore non riesce più a farsi il nodo alla cravatta… giornalistica. Evidentemente invecchiando è stato colto da aprassia da editoriale. Con ricadute, non sappiamo però se sintomatiche dell’Alzheimer, nella schizofrenia.

Infatti nella prima parte Macron viene denigrato ricorrendo ai soliti stereotipi della destra gallofoba. Nella seconda, o meglio nell’ultima parte, all’improvviso lo si giustifica: la Russia è pericolosa, quindi è più che accetto ragionare in termini di un possibile allargamento dell’intervento.

Che dire? È triste vedere un uomo davanti allo specchio che non riesce più a farsi il nodo alla cravatta.

Tornando a Macron, va detto che in realtà fa politica, e molto meglio di Giorgia Meloni, che invece, a corto di idee, persevera nella tradizionale duplicità della politica estera italiana, con l’aggravante di non avere alle spalle la cultura democratica e antifascista di democristiani e socialisti.

Pertanto le telefonatine segrete a Trump non sono dettate dalla prudenza morotea del realista politico (sebbene a breve termine, a quo), ma dall’avventatezza populista verso una specie di Pietro Pacciani newyorkese con i soldi, gradito compagno di future merende sovraniste con la Fiamma. Anche contro la stessa Unione Europea. E magari strizzando l’occhio a Putin.

Insomma un realismo dai possibili risvolti criminogeni, a breve termine, ma più pericoloso. Per capirsi: quelle cose che finiscono tipo Norimberga. Portando giustamente alla sbarra i gangster. Dopo guerre vittoriose costate “sangue, fatica, lacrime e sudore”, per dirla con Churchill.

In realtà Macron ci prende eccome. Da dieci anni, e non è poco, riesce a tenere a bada la destra eversiva e una sinistra più arruffona che radicale. Si muove abilmente, pur tra grandi difficoltà, intorno all’idea di un centro repubblicano, in stile Terza Repubblica, come costituzione materiale della Francia.

Quanto alla politica estera, a differenza della tradizione gollista, Macron, da realista a lungo termine, ad quem, ha perfettamente capito, che la Francia da sola non può farcela, neppure in coppia con la Germania. Di qui l’appello Nato. Si chiama politica.

Carlo Gambescia

domenica 17 marzo 2024

Febbre da Putin…

 



Quando il tempo libero abbonda -  raramente -   navighiamo su YouTube per "pescare"  video,   per dirla in chiave giornalistica,  in stile fasciocomunista.

In genere si tratta di videoconferenze. Sono veramente divertenti come le pellicole del famoso filone della commedia all’italiana nelle sue varie sfumature: da “I soliti ignoti” a “Febbre da cavallo”. Si scopre un' Italia sospesa tra il verosimile e la macchietta. Febbre da Putin, come ora vedremo

Si prenda infatti la guerra in Ucraina e i cosiddetti putiniani italiani, quasi tutti membri della tribù fasciocomunista. In prima battuta, parlarono di guerra lampo russa vittoriosa, poi di resistenza prezzolata degli ucraini, adesso, nuovamente, di crollo prossimo venturo dell’Ucraina.

Ora, che, come ne “I soliti ignoti”, i putiniani italiani stiano aprendo un buco nel muro sbagliato, al di là del quale non c’è nessuna cassaforte ma solo un pentolone di pasta e fagioli, si scopre dalla motivazione che viene fornita.

La Russia – dicono – è più forte perché gode di una forte coesione religiosa. Per capirsi: trono e altare. Il fasciocomunista putiniano è fermo a Joseph de Maistre. Controrivoluzione allo stato puro. Ora, al di là della pasta e fagioli reazionaria, ci si deve porre una domanda: ma quando mai l’accoppiata stato e chiesa, storicamente parlando, ha fatto la forza dell’Occidente? Che invece ha tratto slancio, nella sua modernità, proprio dalla separazione tra stato e chiesa e dalla secolarizzazione?

Hitler e Mussolini non sono stati sconfitti a colpi di rosario. Stalin senza i rifornimenti americani sarebbe andato a fondo. La coesione religiosa con la vittoria dell’Occidente nel 1945 non c’entra nulla. La difesa armata della libertà, sì. L’esatto contrario di ciò che rivendicano i filoputiniani: sfigati che come in “Febbre da Cavallo” puntano su Soldatino-Putin…

Si guardi al destino secolarizzante della Chiesa anglicana, una teocrazia fallita. come pure si noti lo slancio economico del pluralismo religioso, ma fortemente secolare, che ha caratterizzato i gloriosi traguardi della società americana.

Altrettanto ambiguo resta il concetto di  religione civile. Che rinvia al  portato secolare dello sviluppo della statualità illuministica (il cosiddetto giuseppinismo), poi declinata, anzi rovesciatasi in chiave roussoviana-giacobina (Europa) e puritana (Stati Uniti).

Due filoni contrapposti: il primo (la statualità giacobino-illuministica) sfocia nel welfare; il secondo (il puritanesimo) culmina nel libero mercato. E solo per il primo filone si può parlare di religione civile a tutti gli effetti. Dal momento che il puritanesimo è culto del merito piuttosto che dello stato sociale. Si potrebbe parlare di religione privatistica a intermittente sfondo patriottico.

Comunque sia, parliamo di un processo di secolarizzazione che non ha nulla a che vedere con l’eredità bizantina del cesaropapismo russo, che si è sviluppata, in una sorta di modernismo reazionario, della “Quarta Roma” (duginiano-putiniana, semplificando), che vede la chiesa sottoposta allo stato, unico interprete della tradizione cristiano-ortodossa, tra l’altro nemica del cattolicesimo romano, che invece, sebbene per vie oblique, seppe aprire alla modernità.

Queste sono cose complicate da capire per i fasciocomunisti putiniani.  Però chi sa, come chi scrive,  si diverte a vederli all’opera mentre forzano la parete sbagliata.

In realtà, se di “religione” dell’Occidente si deve parlare, e qui vide bene Croce, crediamo si debba parlare di religione della libertà. Una fede senza preti, ma che, quando occorre, ha bisogno di soldati. Una libertà faticosamente riscattata nel 1945, contro fascisti e nazisti.

Religione sconosciuta ai russi. Che si ritrovarono, per caso e necessità, dalla parte dell’Occidente, una volta traditi dal “fratello coltello” Hitler. Se proprio si deve adottare un linguaggio religioso, la guerra del 1939-1945 è il santuario armato delle libertà occidentali.

Se l’Occidente non sembra capire l’importanza di difendere l’Ucraina dagli artigli di Mosca, è perché ha dimenticato la lezione del 1945 e crede che la libertà si difenda da sola.

Qui risiede l’unica e vera debolezza dell’Occidente. Non è un problema di mancanza di fede in dio, ma di assenza di fede nel valore della libertà.  Nè di coesione sociale ovina o bovina.

La stessa libertà che ha fatto grande l’Occidente. Una fede che ha un preciso corollario: la libertà si difende non con i preti ma, quando serve, con i soldati.

Qui, però, da Monicelli e Steno si passa a Shakespeare.

Carlo Gambescia

sabato 16 marzo 2024

Giorgia Meloni e il realismo politico-telefonico

 


Secondo “Il Foglio” Giorgia Meloni giocherebbe su due piani: ufficialmente si mostra dalla parte di Biden mentre in segreto appoggia Trump. Nel pezzo si parla di “telefonate che non devono esistere”. Il senso di tutto questo, se vero, è che Giorgia Meloni praticherebbe la diplomazia segreta. Si chiama anche doppiezza. In fondo normale in politica.

Allora il lettore si chiederà perché un sostenitore del realismo politico, come noi, debba prendersela così tanto per il comportamento di Giorgia Meloni. Che in fondo si preoccupa di non chiudere la porta in faccia a un candidato alla presidenza degli Stati Uniti.

Il problema in realtà è di fin dove possa spingersi un approccio realistico alla politica. In passato abbiamo scritto a proposito della dottrina criminogena della politica, che si compiace del proprio malvagio comportamento (*).

Una teorizzazione che ci aiuta a capire la distinzione tra Hitler e Bismarck: il primo, tra i brindisi dei suoi, considerava i trattati di pace argomenti per imbrogliare il nemico e per prepararsi alla guerra, il secondo strumenti per imbrigliare gli avversari e allontanare, per il momento, il pericolo della guerra. Hitler si compiaceva, Bismarck restava indifferente, normale routine.

Qui risiede la distinzione principale tra realismo criminogeno e realismo standard. Sono due tipi realismo a quo: immersi nel presente, che guardano alle conseguenze immediate: imbrogliare e imbrigliare, poi si vedrà.

Esiste però un terzo tipo di realismo, che definiamo, consapevole, perché si preoccupa delle conseguenze future: un realismo politico ad quem. E tra le conseguenze c’è la difesa dei valori, ignorata da Bismarck e Hitler.

Per fare un esempio quando Churchill rifiutò di arrendersi a Hitler, ragionò da realista consapevole, perché pensò alle future conseguenze che il cedimento avrebbe avuto per i  valori liberali. Era una scommessa, ma la vinse, e con Churchill vinse l’Occidente.

Si dirà che abbiamo complicato le cose. In realtà, abbiamo preso le cose alla lontana  per poter incasellare le telefonate segrete di Giorgia Meloni a Trump nell’ambito del realismo standard, dell’indifferenza bismarckiana rispetto alla difesa futura dei valori.

Per Giorgia Meloni, nella  migliore delle ipotesi, Trump e Biden pari sono. Come dire?  Finché la barca va... 

Invece nella peggiore delle ipotesi non si può escludere un cambio di marcia. Nel senso -  parliamo sempre della Meloni - di   scorgere in Trump, come Mussolini scorse in Hitler, un alleato. A quel punto si scivolerebbe nel realismo criminogeno. Un rischio che esiste perché, in termini di cultura politica populista-nazionalista – cultura che rinvia alle criminali  catastrofi del Novecento – i punti di contatto tra Giorgia Meloni e Trump sono superiori, e di molto, rispetto quelli che la uniscono a Biden.

Ora, accostare, nel bene o nel male, il nome di Giorgia Meloni a Bismarck, Hitler, Mussolini, Churchill, può sembrare un’esagerazione. In realtà si tratta di esemplificazioni tipologiche – cioè manifestazioni peculiari di determinati caratteri dei vari tipi di realismo (criminogeno, standard, consapevole) – al loro livello storico più alto.

Ciò significa che il “tipo” può essere declinato storicamente in chiave scalare.

Pertanto si pensi una specie di classifica Amazon del realismo che vede Hitler, Bismarck e Churchill ai primi posti, Mussolini al ventesimo, Trump al cinquantesimo e Giorgia Meloni al centoundicesimo…

Perciò si dirà, se criminale, criminale di mezza tacca. Può darsi. Che aspetti. Ma non tutta la vita… Per dirla con due filosofi sanremesi.

Carlo Gambescia

(*) Carlo Gambescia, Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizioni Il Foglio, Piombino (LI) 2019, pp. 41-49.

venerdì 15 marzo 2024

Mario Sechi e la storia di Francia

 


Mario Sechi, da buon giornalista con pretese intellettuali, si impone di spiegare al lettore, quello che lui il giorno prima non sapeva. Il che ha un effetto comico. Perché, chi sa, chi studia, si accorge subito del bluff. Nel senso che Sechi, scrive a orecchio. Si dà  arie di conoscere cose che invece non conosce. Di qui l’effetto comico del famigerato monarca che si pavoneggia con abiti lussuosi ma inesistenti. C’è però dell’altro. Sechi vuole tirare la volata al presidenzialismo di Giorgia Meloni. Ma procediamo per gradi.

Si prenda l’editoriale di oggi. Sechi dichiara di aver letto il primo volume, su tre, dell’ Histoire intime de la Ve République, vol. 1, Le sursaut (2021). Un’opera storica di taglio giornalistico. Il suo autore, Franz-Olivier Giesbert, giornalista di professione, è abbastanza noto e acculturato. Politicamente parlando – e semplificando – può essere definito un socialista, passato a destra. Destra non fascista. Come “peso specifico”: molto al di sotto di un Raymond Aron, un pochino al di sopra del nostro Mieli. Ma non è questo il punto.

Sechi, nella sua ansia di elevare Giorgia Meloni all’altezza di Charles de Gaulle, liquida in quattro righe, con una sbalorditiva sicumera, la storia della Terza (1871-1940) e della Quarta Repubblica (1947-1958): quasi novant’anni di storia francese.

Si dirà che si tratta di editoriale, quindi lo spazio è ridotto. Sì, però c’è modo e modo.

Sechi, fedele all’antiparlamentarismo di destra, ridicolizza un ottimo esempio di stabilità repubblicana. Che fa? Mette insieme alcuni nomi (Thiers, MacMahon, Grévy,  Carnot, Casimir-Périer), senza precisare provenienza politica e contesto: MacMahon ad esempio era legittimista, voleva restaurare la monarchia… Thiers, grande storico, era un repubblicano di ferro…

I primi venti anni (grosso modo) della Terza Repubblica furono segnati da fortissimi conflitti tra legittimisti e repubblicani, che finirono solo con la fuga alla fine degli anni Ottanta del generale Boulanger, golpista di destra. Che in seguito si suicidò, sembra per amore.

Dopo di che la Terza decollò. Superò brillantemente la prova della Prima guerra mondiale, ma non resse alla sconfitta annunciata della Seconda. Nel secondo dopoguerra la Quarta Repubblica, che rispetto alla Terza, aveva puntato sul rafforzamento dell’Esecutivo cadde sulla questione coloniale. Charles de Gaulle virò a destra, destra democratica ovviamente. Nel 1958 varò il presidenzialismo gollista, che a grandi linee dura tuttora, presidenzialismo però polarizzante. Il che per la Francia non è mai stato un bene.

Un inciso per la cronaca (storica): la Prima Repubblica fu quella di eredità giacobina (1792-1804), alla quale mise fine Napoleone I; la Seconda, dalla vita ancora più breve, fu quella che permise a Napoleone III di impadronirsi del potere (1848), riciclandosi (1852), da presidente a imperatore.

Il lettore può intuire la complessità della storia della Terza e Quarta Repubblica, storia che non può essere ridotta al numero più o meno grande dei governi succedutisi.

In realtà molti costituzionalisti parlarono e parlano a proposito della Terza di un modello politico francese, flessibile, che alla costituzione formale preferì lo strumento delle leggi costituzionali. E che fu capace di resistere agli attacchi della destra e della sinistra grazie a un forte centro politico, capace di permanere al di là della rotazione dei governi. Qui il segreto della stabilità francese. Dal momento che proprio la caduta del centro politico aprì le porte alla polarizzazione degli anni Trenta: prima alla sinistra, poi alla destra reazionaria, che usò la sconfitta per aprire quelle della Francia a Hitler.

Centro politico, autenticamente repubblicano, che però non riuscì a ricostituirsi, neppure nella Quarta. Stessa storia per la Quinta Repubblica polarizzatasi intorno all’asse destra-sinistra, non nel senso però del modello Westminster ( della normale alternanza tra conservatori e laburisti). Il che spiega gli alti e bassi della Quinta, sempre a rischio di cadere prigioniera degli estremismi contrapposti.

Una Francia, che però, solo ora, sembra scorgere con Macron la possibilità di rinascita di un centro repubblicano, capace di contenere l’estremismo. Alcuni parlano di Sesta Repubblica.

Non è perciò giustificabile saltare tutto questo, e in nome di che cosa? Del solito antiparlamentarismo di destra, capace solo di contare il numero dei governi senza guardare alla stabilità di sostanza. E per giunta teso a favorire l’accostamento tra Charles de Gaulle, che era antifascista, e Giorgia Meloni, che invece proviene da un partito dalle radici fasciste.

Come detto, la pretesa e pretestuosa conoscenza della storia francese da parte di Sechi può strappare un sorriso.

Però è un sorriso amaro.

Carlo Gambescia

giovedì 14 marzo 2024

Ucraina. Logica della pace o della paura?

 


Nell’ interessante editoriale sulle dichiarazioni di Macron a proposito dell’inevitabilità di intervenire sul campo in Ucraina, Piero Ignazi riduce all’osso la questione. Forse troppo. Si legga qui.

«L’intervento di Macron sprona l’occidente a prendere una decisione: entrare in campo per sconfiggere la Russia fino alla sua debellatio, con tutti i rischi connessi, oppure finirla con i grandi proclami e cercare una soluzione. Alla fine la scelta è tra continuare con la logica bellicista, fino alle estreme conseguenze, o dare spazio alla logica della pace e far tacere le armi prima possibile. E prima che qualcosa sfugga di mano» (*).

Le cose non stanno proprio così. Non esiste un taglio netto tra “logica bellicista” e “logica della pace”. Spesso, la “logica della pace” è collegata alla logica bellicista, nel senso che dipende dai risultati sul campo.

Per fare un esempio legato alla situazione Ucraina, nel giugno dell’anno passato, quando la Russia sembrava cedere terreno, si verificò addirittura un tentativo di golpe, che metteva in discussione il potere di Putin. Che dietro di esso, vi fosse la “logica della pace” non è sicuro. Però il collegamento con l’andamento allora negativo della guerra per i russi resta certo. Oggi, che invece a cedere terreno è l’Ucraina, se non è proprio Kiev a chiedere di intavolare trattative, sono di certo alcuni alleati occidentali.

Le cose perciò sono più complesse di quel che sostiene Ignazi. Il quadro evolutivo-involutivo sul campo può influire sulla decisione di iniziare le trattative. Mentre le trattative di pace presuppongono il congelamento della situazione sul campo. Si pensi, in quest’ultimo caso, alla differenza in meccanica fisica, valida anche in politica, tra statica e dinamica.

Però in questo quadro complicato la Russia, rispetto all’Occidente, ha per così dire due marce in più: la prima, è rappresentata dall’unità di comando politico e militare. Il Cremlino, non deve contrattare con nessun alleato interno ed esterno la conduzione politica e militare della guerra, siamo dinanzi a un' autocrazia che risponde solo a se stessa; la seconda, conseguenza della prima, è costituita dall’arsenale atomico, che la Russia, non dovendo rispondere a nessun interlocutore politico, esterno ed interno, può minacciare di usare in qualsiasi momento. L’autocrazia non si pone scrupoli di nessun genere.

Pertanto, “dare spazio alla logica della pace”, dinanzi a un interlocutore del genere, significa “dare spazio” a un nemico che mai rinuncerà alla “logica bellicista”: perché l’Occidente euro-americano ha davanti a sé un’autocrazia, priva di remore, che per giunta dispone di armi atomiche.

La Russia è pericolosa. Di conseguenza, ogni cedimento sul campo , nella migliore delle ipotesi, corrobora, se ci si passa l’espressione, l’ “autostima” di Mosca. In altri termini ne accresce il senso di superiorità nei riguardi dell’Occidente.

Come tipo di mentalità  si nutre  dello stesso disprezzo che Hitler e Mussolini riservavano  alle decadenti democrazie occidentali. E tutti ricordano come finì. Vinse l’Occidente, dopo una guerra colossale, che vide le potenze occidentali costrette ad allearsi con la Russia comunista. Oggi potrebbe toccare alla Cina. Che però potrebbe uscire rafforzata da un’alleanza con l’Occidente, come fu per la Russia dopo il 1945.

Insomma, può apparire incredibile, ma l’Occidente paga ancora, “per li rami”, le conseguenze della politica di appeasement (riappacificazione) verso Hitler della seconda metà degli anni Trenta.

Se al primo accenno dell’ aggressività hitleriana, si pensi al tentativo di Anschluss dell’Austria nel 1934, nel nome di una “Grande Germania” (come oggi si parla di “Grande Russia”), le potenze occidentali, allora fortemente divise, fossero intervenute radicalmente, estirpando il male, la storia mondiale avrebbe presso un’altra piega.

Come si può frenare l’autocrazia russa? La cui preparazione militare però è di molto superiore a quella della Germania nel 1934? Di sicuro, evitando di mostrarsi divisi. Quindi puntando sull’unità di comando politica e militare. Cosa non facile per le democrazie che devono rendere conto a una pubblica opinione, quasi sempre divisa e pacifista (come già notò Tocqueville).

Inoltre, il concetto di guerra fino alla debellatio  reintrodotto da Ignazi, non è gradito in Occidente, a meno che non via sia costretto come nel 1939 (invasione della Polonia) e 1941 (attacco a Pearl Harbour). Infine su queste incertezze pesa la continua minaccia russa di usare le armi atomiche, che divide ancora di più l’Occidente al suo interno.

Che cosa vogliamo dire? Che, se l’accettazione della “logica bellicista”, della debellatio, che si collega a un crescente intervento sul campo, implica il rischio della guerra atomica, l’adesione alla “logica della pace” non esclude la moltiplicazione degli appetiti russi e il rischio di altre guerre di conquista, che non escludono da parte della Russia la rinuncia all’ uso di armi atomiche.

Ovviamente è una nostra opinione, ma riteniamo che la minaccia atomica russa, sia un’arma per spaventare e dividere l’Occidente. Si chiama politica della paura. Sul piano strategico da una guerra atomica non uscirebbero né vinti né vincitori. E i russi, pur nella loro grossolanità, lo sanno benissimo. Certo, il famigerato errore del bottone premuto per sbaglio non può essere escluso.

Però, ecco il punto, la vera alternativa non è tra “logica bellicista” e “logica di pace”, ma tra l’accettazione o meno del rischio atomico. Ovviamente, chi non ha coraggio, non se lo può dare. E su questo fattore paura, ormai quasi una seconda natura dell’Occidente, gioca, diciamo sporco, la Russia. Che, forte del suo tradizionalismo, si sente superiore, come si proclama,  rispetto agli effeminati occidentali, proprio come si sentiva la Germania nazista, secondo il  mantra nazionalsocialista, nei riguardi delle degenerate democrazie europee.

Certo, si può cedere e abbandonare l’Ucraina al suo destino. Come fu per Austria e Cecoslovacchia. Però non si parli di “logica della pace”, di buon senso, uso della ragione, eccetera, eccetera. 

Si tratta invece dell'esatto contrario.  Si chiama logica della paura.  E per chi scrive della resa.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/dobbiamo-dare-una-risposta-al-neo-atlantismo-radicale-di-macron-anyfvmrd .

mercoledì 13 marzo 2024

Perché la sinistra perde

 


Prima un dato. Nel 2018 Fratelli d’Italia, era un partitino: tra Camera e Senato, disponeva di una pattuglia di 50 parlamentari. Nel 2022, raggiunge i 204.

Per contro il Partito democratico nel 2018, ne aveva 166, nel 2022, 109. Quanto al Movimento Cinque stelle, nel 2018, ne aveva 339, nel 2022, 80.  Le cifre si commentano da sole anche  tenuto conto della riduzione del numero dei parlamentari intervenuta tra il 2018  e il 2022   (da 915 a 600).

I risultati abruzzesi confermano questa tendenza. E alle prossime europee Fratelli d’Italia  potrebbe “sbancare”.

Le elezioni sarde, rappresentano invece un caso a parte. Un goccia nel mare di una sinistra in caduta libera che brancola nel buio, dal momento che in Sardegna ha vinto, e di poco, a causa delle divisioni della destra.

Dove sbaglia la sinistra? La risposta e semplice: 1° punto, nel non distinguersi sul piano delle politiche pubbliche dalla destra. L’unica divergenza è sull’imposizione tributaria, ma non in quanto tale. La destra è per i condoni, la sinistra invece li avversa. E qui ha gioco facile la destra nel catturare il voto di milioni di "abusivi" (semplifcando); 2° punto, nell’accentuare la sua aggressività, in termini di stato poliziotto, sulla difesa del politicamente corretto, che va ben oltre il ridicolo. Anche qui la destra ha gioco facile nell’ironizzare, ad esempio, su cose tipo genitore 1 , genitore 2.

Va poi segnalato un 3° punto: quello del migrante welfarizzato. E qui, per la destra, Fratelli d’Italia in particolare, è facile rivendicare il welfare solo per gli italiani. La destra vince perché intercetta, meglio della sinistra, quell’individualismo protetto così amato da milioni di italiani: individualismo privato con il paracadute pubblico. Si tratta di un prolungamento storico dell’ antico familismo corrotto e corruttore, oggi riverniciato con i colori del welfare, sul quale la destra prende i voti.

Il punto è che la sinistra non è assolutamente liberale. Non ha coraggio. Attenzione, il liberalismo, nel senso di una libertà senza il paracadute dello stato, non è gradito agli italiani, abituati da sempre a privatizzare i guadagni e statalizzare le perdite.

Di conseguenza, ecco la maledizione storica, l’impasto elettorale vincente, cosa che Giorgia Meloni ha capito benissimo, è una miscela programmatica di statalismo e individualismo. Come dicevamo: individualismo con il paracadute dello stato

La sinistra invece punta sulla protezione pura e semplice dello stato, cosa che all’ elettore individualista a mezzo servizio non può piacere. La stessa battaglia sui diritti civili, giustissima, viene combattuta in termini assistenzialistici. Per la sinistra l’ultima parola spetta sempre allo stato non all’individuo. La destra invece patteggia. Da maestra dell’ “Aumm aumm”.

Secondo la sinistra se un individuo per ragioni proprie, vuole porre fine alla sua vita, deve chiedere un permesso alla Asl. Se una coppia gay si vuole sposare, spunta l’Albo speciale comunale che divide i cittadini in giocatori di serie A e serie B. Il migrante, al di là della prima necessaria assistenza, viene tramutato in una montagna di scartoffie, tra le quali è difficile raccapezzarsi per un italiano, figurarsi per chi provenga dallo Zimbabwe.

Si dirà che le nostre sono battute… Però la sinistra perde la sua battaglia perché accetta di scendere sullo stesso campo della destra: il welfare, accentuandone i lati protezionistici e statalisti. Mentre la destra enfatizza gli aspetti individualistici, chiudendo un occhio, tipo "lo stato c'è però mettiamoci d'accordo".  E vince, perché corteggia abilmente l’anarchismo con il paracadute amato dell’elettore medio italiano.   Però in questo modo siamo davanti a una specie di gioco delle parti, estraneo a ogni vero liberalismo, che non vuole alcun paracadute (qui la differenza con la  destra),  e neppure  il paracadute di stato (qui la differenza con la sinistra).

Altro esempio: sulla “transizione ecologica” – un gigantesco programma di oppressione dei diritti individuali, a cominciare dal diritto di proprietà – destra e sinistra sono d’accordo: si deve fare. La divergenza è sui tempi. Tutto qui.

Un ultimo esempio: la questione della Rai. La sinistra si guarda bene dal parlare di una privatizzazione. E la destra? Lottizza, come prima faceva la sinistra. E così via “in saecula saeculorum”.

Concludendo, perché la sinistra perde? Perché non è liberale. Si dirà che non è nel suo Dna, come pure non lo è in quello degli italiani. Di conseguenza, anche una sinistra paladina del liberalismo potrebbe continuare a perdere voti.

Può darsi. Ma qual è l’alternativa politica? Continuare a perdere, giocando al rialzo sullo statalismo con una destra furba che vince perché strizza l’occhio all’individualismo protetto?

Esiste una sola ricetta per uscire dal circolo vizioso tra individualismo pagato dallo stato (destra) e statalismo (sinistra). Si chiama liberalismo.

Carlo Gambescia

martedì 12 marzo 2024

Taine e i pericoli del suffragio universale

 


Nella politica moderna, basata sul suffragio universale, esiste una pericolosa linea di tendenza individuata da uno storico, che nessuno più legge, Hippolyte-Adolphe Taine (1828-1893).

Storico liberale, scienziato, sociologo suo malgrado, non un reazionario ma un amico della modernità, Taine scrisse un’opera di tremila pagine sulla Rivoluzione Francese, che, in pagine famose ma dimenticate, paragonò a un coccodrillo che mangia l’uomo per poi piangere.

Che cosa aveva intuito Taine? Da assiduo lettore di Tocqueville, altro pensatore liberale, oggi più citato che letto, Taine metteva in guardia sull’uso antidemocratico della democrazia: del voto insomma. Cioè del rischio, considerate le scarse capacità di discernimento dell’ elettore medio, vero fascio di emozioni, di consegnare le chiavi del potere ai nemici del liberalismo moderno, difensore dell’individuo.

Di qui, a suo avviso, la necessità di un suffragio ristretto, o comunque di un sistema elettorale, basato su gradi elettorali differenti (elettori che scelgono altri elettori, e così via), in grado di limitare il potere dei demagoghi. Come? Favorendo la riflessione, a cominciare, solo per dirne una, dalla conoscenza diretta, personale, della biografia dei candidati (*).

Per contro, il demagogo è colui che usa la democrazia contro la democrazia. Inutile qui insistere sul nesso demagogia-tirannia (in ogni tiranno c’è un demagogo, in ogni demagogo un tiranno), individuato da Aristotele, duemila e cinquecento anni fa.

Taine, sosteneva, in anticipo su Mosca, Pareto, Michels, quattro cose: 1) che, a prescindere dalla forma di governo, sono sempre in pochi a governare; 2) la necessità, per conseguenza, di una selezione dei migliori, che a dire il vero non era assicurata, né lo è, né mai lo sarà, da nessuna forma di governo; 3) Tuttavia, come provava il periodo del Terrore durante la Rivoluzione e le dittature cesariste che di Napoleone I e III, il suffragio universale portava, prima o poi, alla dittatura di tipo politico o militare. Di qui 4) la sua pericolosità.

Sappiamo benissimo che una tesi del genere non è popolare. Soprattutto oggi. Il suffragio universale è mitizzato, guai a parlarne male o proporre una sua limitazione.

Si preferisce chiudere gli occhi dinanzi alla bassa o scarsa affluenza elettorale e alla pessima qualità del discorso pubblico, come pure delle élite selezionate. Non si sa bene in che cosa si speri. Magari che le cose si aggiustino da sole.

Nel frattempo però il suffragio universale sta portando al potere, un poco ovunque, i nemici della libertà: l'estrema destra ha rialzato la testa. Si dimentica ( o si finge di dimenticare)  che Hitler andò al potere, come Robespierre, Napoleone I, Napoleone III, con il suffragio del popolo. E i casi storici, appena citati, sono solo i più eclatanti.

Conosciamo bene le tesi dei difensori del suffragio universale: votare è un diritto di tutti, perché riflette il principio di uguaglianza e consacra la sovranità del popolo. A quest’ultima idea oggi si attribuisce un valore analogo a quello che si ascriveva alla sovranità per diritto divino del monarca. Pura teologia politica. Chiacchiere e distintivo, per fare una battuta.

Il meccanismo autodistruttivo del voto universale è interessante. perché racchiude in se stesso le ragioni della sua autodistruzione. Dal momento che l’autodistruzione dipende non dalla disapplicazione del suffragio universale ma dalla sua applicazione. Insomma, senza correttivi, la distruzione del sistema politico, periodica o meno, è inevitabile.

I nostri sistemi politici sono definiti liberal-democratici. In realtà sono democratico-demagogici. Di liberalismo c’è molto poco: il potere della maggioranza, potere democratico per eccellenza ( basato su una maggioranza che poi è una minoranza a causa della bassa affluenza e della natura elitistica del potere, qualunque potere), non è neppure tale, perché  si tratta di un potere che opprime l’individuo, che invece è alla base della concezione liberale della politica.

Sicché assistiamo allo scontro tra minoranze: cosa naturalissima, se le minoranze non evocassero, ricorrendo ai trucchi più meschini, la sovranità del popolo. Ovviamente sempre a proprio vantaggio. Di conseguenza assistiamo a un gioco al rialzo. Detto altrimenti, vince chiunque risulti capace di dirla più grossa.

Si dovrebbe invece prendere atto che la politica è conflitto tra minoranze, non in nome del popolo ma dell’individuo.  Che  non è un'entità astratta, perché esiste in carne ossa: Luigi, Marco, Giovanni, Mario, Maria, Elisabetta, Liliana, Rita, eccetera.  Quindi, in difesa  dell'individuo, va attributo meno potere dello stato. Meno ne ha meglio è per Luigi, Marco, Giovanni, eccetera. Ecco in che cosa  consiste una politica liberale.

Il che però non è al momento possibile, perché l’ idea di popolo è finzione condivisa da tutte le minoranze in conflitto. E di conseguenza è praticamente impossibile, come dicevamo, parlare di suffragio ristretto, o comunque di introdurre una legge elettorale che privilegi la liberal-democrazia riflessiva rispetto democrazia emotiva. In Italia, per dirne una, si sta andando addirittura verso il cesarismo presidenziale. Si proclama, come ai tempi di Napoleone III, che il popolo  deve scegliere il suo presidente.  Napoleone, prese milioni di voti, dopo di che azzerò la Repubblica e  restaurò l'Impero. 

Di solito, alle nostre critiche, si risponde asserendo che qualsiasi modifica al principio del suffragio universale  può causare danni ancora più gravi, perché premia inevitabilmente le aristocrazie del denaro.

Argomento tipicamente demagogico che vede nella ricchezza non un merito ma una colpa. Inoltre si dice che il popolo può essere educato solo attraverso la partecipazione politica. Insomma, anche qui, sempre in chiave demagogica, si dà per scontato che la conoscenza, anche politica, sia fonte di virtù.

Taine, nelle sue tremila pagine mostrò che purtroppo non è così: l’individuo ragiona, il collettivo, cioè la folla, sragiona. E di conseguenza il suffragio universale, mecca delle folle, favorisce la demagogia.

Cosa non difficile da capire. Inoltre, si rischia, come detto l’autodistruzione. Eppure…

Carlo Gambescia

(*) Taine dedicò alla questione un importante articolo (1871) riprodotto in Carlo Mongardini,  Storia e sociologia nell' opera di H. Taine, Giuffrè Editore, Milano 1965, pp. 399-416.  La  monografia di Mongardini resta tuttora  il migliore studio italiano sul pensatore francese.