martedì 5 dicembre 2017

Il 51° Rapporto Censis
Cattiva sociologia




Non crediamo nella sociografia, almeno non del tutto.  I dati quantitativi occorrono al sociologo, dunque alla sociologia, che è però, dal punto di vista disciplinare, non può essere ridotta  al  balletto politico  su cifre,  frutto di concetti operativi  che riflettono ipotesi teoriche, che, a loro volta, rinviano a visioni del mondo.  
Semplificando, per un sociologo socialista, il cui pensiero ricorrente  è quello di  eliminare  la povertà, addossando ovviamente ogni  colpa alla società,  il bicchiere delle statistiche in materia sarà sempre mezzo vuoto, per un sociologo conservatore,  che  invece  ritiene ineliminabile la povertà, perché  frutto di carenze individuali, il bicchiere sarà sempre  mezzo pieno.
Pertanto al lettore, digiuno di queste cose, va ricordato che i  dati annuali del Censis, snocciolati dai mass media come oro colato, discendono da  un impianto ideologico di tipo welfarista:  l’intera impostazione del Rapporto privilegia il nesso tra ricerca sociale e  politiche pubbliche, come se sociologo e  sociologia fossero al servizio, per così dire, del ministero dell’assistenza sociale. Lo sguardo del Censis sulla realtà sociale, non è al di sopra delle parti,  ma  di tipo solidarista. Non è una colpa, per carità, ma al vecchio Max Weber, che aveva una fissa per la corretta metodologia,  non sarebbe capitato. O comunque, il grande sociologo tedesco, senza nascondersi dietro i neologismi,  avrebbe subito dichiarato, chiaro e tondo, come la pensava.   Dalle parti di Heidelberg, la chiamano Wertfrei. 
Facciamo subito  un esempio tratto  dal 51° Rapporto, uscito pochi giorni fa,  dove si afferma che

“l'onda di sfiducia che ha investito la politica e le istituzioni non perdona nessuno: l'84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici. Non sorprende che i gruppi sociali più destrutturati dalla crisi, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi della globalizzazione siano anche i più sensibili alle sirene del populismo e del sovranismo. L'astioso impoverimento del linguaggio rivela non solo il rigetto del ceto dirigente, ma anche la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica”.

Dopo di che  quando però   si va a leggere quali sono i desiderata dei soggetti “che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica”,  si scopre che il loro  “l'immaginario collettivo", che per il Censis dovrebbe normativamente rimandare alla definizione di " un'agenda sociale condivisa”, rinvia invece alle

nuove icone della contemporaneità. Nella mappa del nuovo immaginario i social network si posizionano al primo posto (32,7%), poi resiste il mito del «posto fisso» (29,9%), però seguito a breve dallo smartphone (26,9%), dalla cura del corpo (i tatuaggi e la chirurgia estetica: 23,1%) e dal selfie (21,6%), prima della casa di proprietà (17,9%), del buon titolo di studio come strumento per accedere ai processi di ascesa sociale (14,9%) e dell'automobile nuova come oggetto del desiderio (7,4%). Nella composizione del nuovo immaginario collettivo il cinema è meno influente di un tempo (appena il 2,1% delle indicazioni) rispetto al ruolo egemonico conquistato dai social network (27,1%) e più in generale da internet (26,6%)”.


Ora,  posto fisso, casa di proprietà, automobile,  buon titolo di studio, non sembrano proprio essere “nuove icone della contemporaneità”. Mentre possono esserlo cura del corpo, smartphone e selfie. Cosa indica questa contraddizione, che il Rapporto non scorge?  Che le “nuove icone”, poggiano  su altre  “icone” dure a morire,  come quella del posto fisso e della casa di proprietà. Pertanto  l’Italia risulta “moderna a metà. Solo per quello che fa comodo, insomma.  E cosa più grave ancora, vuole rimanerlo per sempre,  pretendendo di conciliare - semplificando -   mobilità informativa e mobilità lavorativa. E quando si dice mobilità informativa si parla dell’enorme sviluppo di un terziario avanzato che facilita le  delocalizzazioni  e di riflesso la   mobilità lavorativa su scala mondiale.
Di conseguenza, la sfiducia verso  partiti,  parlamenti, governi, istituzioni rimanda all’atteggiamento, non  di una specie di sottoproletariato tecnologico, sul quale  favoleggia  il neoromanticismo socialistoide  recepito dai professori welfaristi del Censis,  bensì  alla  pseudo-rivolta di  coloro che egoisticamente vogliono conservare i privilegi del passato ( a partire da posto fisso) senza rinunciare alle conquiste del presente (smartphone, selfie e cure estetiche). Il che non è possibile. Di qui, i capricci antipolitici, verso una  politica, che in realtà  è fin troppo arrendevole. 
Insomma, il famigerato bicchiere, non è mezzo pieno né mezzo vuoto. E' così. "L'agenda sociale condivisa"  è solo nella testa dei sociologi welfaristi, ammaliati dal costruttivismo sociale.  La società aperta, a differenza di quella chiusa, si fonda, per dirla con Schumpeter,  sulla distruzione creatrice, perciò il conflitto tra chi resta indietro e chi vuole andare avanti, per dirla dottamente,  ne è  parte consustanziale. Piaccia o meno,  non si può eliminare. Detto altrimenti: fa parte del "pacchetto-modernità". O così o pomì. 
Per contro,  il Censis,  invece di   “spiegare al popolo” la necessità,  se veramente  si vuole  la modernità ("contemporanea" o meno),  di viverla fino in fondo,  accettandone pro e contro,  ha scelto la strada del protezionismo sociale ( dell' "agenda condivisa" calata dall'alto"), sicché  blandisce e asseconda,  piangendo bollenti lacrime su chi  già si piange addosso, però con un occhio solo.    
Si chiama cattiva sociologia.

Carlo Gambescia