mercoledì 8 novembre 2017

  Dopo la sconfitta in Sicilia
Il tramonto di Renzi




Ieri sera  in tv Renzi  non è apparso al suo meglio. La batosta siciliana  ha avuto il suo peso. E anche la possibilità, non così  remota,  di un tramonto politico, almeno per ora, dopo solo un quinquennio,  per giunta vissuto pericolosamente.
In realtà, se si vuole discutere sul serio di politica, il vero problema da indagare  resta  un altro:  quanto l’ex premier  abbia creduto nel progetto iniziale di  trasformare il Pd non tanto in una sinistra moderna e normale, idea condivisa anche dai suoi avversari ( Il D’Alema 1998, quando era al governo, diceva le stesse cose del  Renzi  2014),  quanto nella possibilità di ricompattare il Pd intorno a un’idea maggioritaria della dialettica politica destra-sinistra.
La differenza -  se si vuole il capitale iniziale, poi svanito o quasi  -  tra Renzi e i suoi avversari di sinistra verteva  su una importante questione  di  “struttura”.  Ci spieghiamo meglio: tra l’idea renziana di un Pd, forte e compatto, maggioritario, capace di inglobare al suo interno, il centro e la sinistra e l’idea dei suoi oppositori di un’alleanza ulivista, debole e divisa, magari anche vincente, ma poi incapace di governare  mettendo d'accordo tutte le  componenti partitiche. 
Sicché, opponendosi al  disegno unitario renziano,  per ora vittoriosamente, i suoi oppositori, una volta conquistato il partito, rischiano di ritrovarsi  tra le mani una scatola vuota. Con  un' inevitabile corollario nei contenuti politici. Quale? Che,  pur di sopravvivere,  non potranno non  inseguire, giocando al rialzo, il populismo grillino.  E se le cose dovessero andare così, perché  gli ex elettori di sinistra, dovrebbero votare D’Alema, Bersani e Franceschini? Molto meglio l’originale.
Naturalmente Renzi ha commesso  errori, strategici e tattici,  a cominciare da quello gravissimo della personalizzazione, che per un verso poteva  aiutare,  ma per l’altro rischiava, come poi è stato, di tramutarlo in capo espiatorio, consentendo  agli orfani dell’antiberlusconismo di coalizzarsi di nuovo, ma contro di lui. 
Tra gli errori  tattici vanno ricordati,  in primo luogo, il  non essere andato subito al voto dopo la sconfitta referendaria, dimettendosi, ma  "infilando"  moralmente gli avversari di contropiede.
In secondo luogo,  il non aver puntato  su una legge maggioritaria, stroncando le illusioni dei suoi oppositori ulivisti,  proporzionalisti e coalizionisti.  Purtroppo ha  pesato, stando a chi lo conosce bene,  il suo  temperamento femmineo, dai tratti talvolta isterici,  viziato da un egocentrismo, spesso irrefrenabile, che inevitabilmente ha influito sul piano  politico-organizzativo: non è mai bene circondarsi di yes-man, tesi ad appagare il bisogno di apparire a ogni costo "del capo".
Nonché, in terzo luogo, va ricordata, la sua correlativa incapacità, paradossale per un istrione politico, di  dissimulare questi difetti, dote  di grande utilità,  soprattutto a sinistra, dove il tasso di idealismo è ragguardevole  e le forme della retorica politica hanno la loro importanza.
Al nuovo Pd maggioritario, capace di conciliare elettoralmente  moderati e progressisti, ciò che l’ex premier inizialmente aveva in mente,  sarebbe servito  un Renzi decisionista ma dai  modi umili, come Berlinguer. Insomma,  pugno di ferro in guanto di velluto.  E purtroppo gli errori si pagano.


Carlo Gambescia