sabato 25 febbraio 2017

Per una sociologia senza aggettivi (politici) 
 Uno su mille ce la fa 



Si può parlare di una sociologia liberale, marxista, cristiana, tradizionalista, conservatrice?  Dipende da cosa si intende per sociologia.   Se  per sociologia  si intendesse esclusivamente lo studio scientifico della società, puntando sulla conoscenza, ideologicamente neutrale, di "leggi", regolarità, costanti, come quel che avviene e si ripete (quel che è), a prescindere  dai desiderata ideologici degli uomini (quel che dovrebbe essere), allora,  forse, un forse sottolineato due volte,  si potrebbe  parlare di una sociologia priva di aggettivi politici e ideologici.
Ma non è così semplice, come si può intuire.  Infatti,  dal momento che  ciò che è, non è tale per tutti, ecco che un tradizionalista, un cristiano,  un marxista, un conservatore, un liberale,  tenderanno a non riconoscere alcuno statuto di scientificità  alla sociologia, perché quei fatti non risponderebbero alla "vera" realtà. In questo senso, esistono sociologie (ufficiali o meno), tradizionaliste, liberali, cristiane, eccetera.  Che però non sono sociologie,  ma concezioni sociali.
Dov'è l'errore? Nel privilegiare (semplificando) una concezione ideale sulla società (quindi una sociologia con gli aggettivi) rispetto al reale funzionamento della società (studiato dalla sociologia senza aggettivi).       
Ad esempio, si pensi al concetto di società: il liberale scorge  individui che interagiscono perseguendo (ognuno) i propri scopi;  un marxista  vede solo classi che confliggono; un tradizionalista, solo caste e individui, superiori; un cristiano la mano di dio, un conservatore, aristocrazie e istituzioni secolari.
Però ecco la domanda di fondo:  cosa vedrà, un sociologo senza aggettivi? Vedrà interazioni tra individui, conflitti tra gruppi sociali, gerarchie e poteri carismatici, istituzionali  e di status. Ciò che in qualche misura, con accenti maggiori o minori, si ripete a livello formale, pur assumendo, di volta in volta, contenuti storici e ideologici differenti.
Insomma, ogni società  è  e sarà sempre - certo,  con “dosaggi” diversi -   un insieme di tutte queste cose.  Forme sociali che vanno a tradursi in  regolarità o costanti sociale. Si pensi ad esempio, tra le altre,  alla  "legge"  di circolazione delle élites sociali;  élites che si compongono di individui che interagiscono più o meno razionalmente, che come gruppo sociale confliggono con altri gruppi;  che  ricorrono -  tra gli altri poteri - al potere carismatico; che si identificano con istituzioni; che rivendicano status e si strutturano gerarchicamente. 
Le élites  vincono, governano  (bene o male),  soccombono,  posso resistere secoli o  pochi decenni, ma -  cosa certa - sono condannate a  circolare e, soprattutto,  proprio perché tali,  a rimanere patrimonio di   pochi individui, volpi e leoni al tempo stesso: i migliori (sempre in senso relativo), in quel dato momento storico.  Il che però non esclude, ricambio e circolazione interna, così come quella trasformazione,  abbondantemente studiata,   della “piramide” sociale  in  “trottola”  e viceversa.     
Pertanto, la sociologia  senza aggettivi, ci illumina su quello che non  potrà mai avvenire: la nascita di una società  priva di  individui  interagenti,   classi,  poteri carismatici, istituzioni e  status sociali.
Il che non è poco. Ma è anche evidente che le concezioni ideali sulla società hanno una loro utilità dal punto di vista della dinamica socioculturale, della circolazione delle élites,  perché forniscono princìpi di legittimità differenti (se non opposti),  che se recepiti e propugnati,  vanno a incidere - come dire, al di là del bene e del male -  sul   funzionamento reale della società.  
Però, il punto di  discrimine, tra l'ideologo e il sociologo senza aggettivi,  è che l'ideologo-sociologo (liberale, cristiano, marxista, tradizionalista, conservatore, eccetera), vi "crede" fino in fondo, ignorando la differenza tra ciò che può essere e ciò che non potrà mai essere, mentre il sociologo senza aggettivi distingue le due cose e, pur avendo un suo credo ideologico personale come tutti gli essere umani (che può essere liberale, cristiano, marxista, eccetera), sa però dove fermarsi.  Si chiama etica della responsabilità ( o dei mezzi).
Il tutto, ovviamente, fatta salva l'applicazione-estensione, che si ritrova nella realtà,  delle stesse credenze e costanti di cui sopra,  ai poteri sezionali ( da quello accademico, a quello economico, e così via). Ciò significa, che il sociologo stesso risente della distribuzione dei poteri culturali, economici e sociali. Però una cosa è "saperlo", e agire di conseguenza, accettando o meno le conseguenze "morali" dei propri atti,  un'altra "credere" di poter realizzare su questa terra una società totalmente libera, oppure vagheggiare passate età dell'oro: libere, l'una come le altre, da qualsiasi condizionamento di fatto. Ignorando così bellamente,  o per ingenuità o per malafede,   le regolarità di cui abbiamo fin qui parlato.  Dunque,  senza preoccuparsi delle conseguenze fattuali,  individuali e sociali dei propri atti e degli atti collettivi, racchiuse nella severa pendolarità trans-storica delle forme-costanti,  magari evocando, come arma di difesa,  una dolciastra  etica delle convinzioni (o dei valori), dai contenuti metastorici o preistorici.
La sociologia senza aggettivi è perciò  un' impresa molto difficile, per spiriti forti, realmente liberi. Uno su mille ce la fa...        


 Carlo Gambescia                               

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