mercoledì 8 febbraio 2017

La lettera d’addio  del trentenne friulano suicida
 Il sociologo impotente




Cosa può dire il sociologo, dinanzi al suicidio di Michele, grafico di professione, trent’anni, friulano, disoccupato?  E soprattutto della sua  lettera d’addio, lucida,  ben scritta,  argomentata, dove si  spiega il perché?  (*).  
Diciamo che  dal punto di vista statistico (si veda il Pdf allegato **) la situazione di ripresa  dell’occupazione  nel  Friuli, fascia  15-29 anni di età, a prima vista  non giustificherebbe il suicidio. Anche se  va sottolineato,  come si può evincere dai dati, che la professione di grafico,  sotto il profilo delle competenze,  non è tra le più richieste in quella regione. Così come per  tutto ciò che riguarda lavori che richiedono doti come l’intraprendenza e la creatività individuali (pp. 5-7-14 del Pdf). 
Dal punto di vista teorico (ossia della tipologia di suicidio, secondo le classiche categorie durkhemiane), il suicidio di Michele (stando a quel che scrive nella lucida lettera di addio),  gravita tra l’anomico  e l’egoistico: tra la mancanza di riferimenti normativi, che egli  imputa a una società, che promette e non mantiene (visione che però  può essere frutto di una percezione soggettiva errata),  e il rifiuto (altrettanto soggettivo) della vita,  legato alla stanchezza di vivere altre esperienze contraddittorie ( perciò percepite in chiave anomica). Quindi un suicidio "celebrato" come un passo indietro, ma di libertà (ripetiamo, argomentando benissimo),  verso una ideale (ma tragica e "risolutiva") ricomposizione dell’ego.  E pur non ignorando, come si legge,  che gli altri ne soffriranno. Sotto questo aspetto le scuse di Vittorio per il dolore provocato  ai suoi amici e cari  sono una forma di mascheramento altruistico, attraverso la convenzione sociale (il chiedere scusa),  di un atto comunque egoico, dettato da una insoddisfatta domanda di riconoscimento, come si legge, del suo "non conformismo" esistenziale e professionale. Perciò non è una (sola) questione di pane e lavoro.
Se Michele avesse trovato lavoro - il lavoro che sognava di fare - si sarebbe ucciso lo stesso? Probabilmente no.  Le statistiche  in materia  ci dicono che nei periodi di crisi si  registra un aumento dei suicidi. Il che però vale anche per i periodi di crescita economica. Insomma, i suicidi aumentano nei momenti di “cambiamento economico e sociale”, dove regole e punti di riferimento mutano rapidamente, provocando disorientamento, come dire,  a prescindere  dal contenuto positivo o negativo del cambiamento stesso. Va però evidenziato che non c'è prova di un nesso causale diretto  tra suicidio e perdita del lavoro: dal momento che non  tutte le persone che perdono e/o  non  trovano un  lavoro si suicidano:  la maggior parte di esse  sviluppa la cosiddetta  resilienza,  riuscendo a riadattarsi.  Il che però chiama in causa questioni come l’indole individuale dei soggetti: questioni che rinviano  alla psicologia piuttosto che alla sociologia.
Michele, probabilmente, pur essendo dotato di grande creatività, soprattutto sotto l’aspetto della capacità di argomentare, come prova la lucida lettera d'addio (lettere che di regola  sono brevissime o assenti), avrebbe dovuto insistere, magari provando a far valere altrove la sua professionalità. Ma la sua indole, evidentemente,  gli ha giocato un brutto scherzo.  E qui purtroppo il sociologo è impotente.  
Carlo Gambescia  

                                          


(**)   Qui l'ottimo studio della  Camera di Commercio di Udine: file:///C:/Documents%20and%20Settings/User/Documenti/Downloads/Giovani-e-lavoro%20(1).pdf