martedì 29 dicembre 2015

Lo smog e la “cultura dell’emergenza"
Una lezione di sociologia




Questa storia dell’Italia nella "morsa  dello smog" merita un commento. Sociologico.
Appena i media si sono impadroniti della cosa - come è naturale che sia perché  i mezzi di comunicazione sociale inseguono e rilanciano l’attualità, per statuto ontologico -   martellando fin dalle aperture, si è aperto, come si dice, un dibattito politico, su come contrastare, prima a colpi di statistiche, poi di provvedimenti, addirittura a livello centrale,  “l’increscioso fenomeno”.  
Ora, se si fa un giro su Internet, o ( meglio) in libreria, si scopre subito che sulla questione (entità, cause, conseguenze) esiste una bibliografia vasta e contrastante. Insomma, lo schieramento scientifico, medico  e statistico  è profondamente diviso. Per non parlare del mondo  politico, dove la sinistra vuole imporre la sua cultura ecologista, basata sul principio di precauzione (meglio prevenire che curare) e la destra, per  tutta risposta,  l'imperativo darwinista ( né curare, né prevenire, ma  lasciar fare).
Cosa insegna la sociologia? Che ogni stato di  emergenza porta con sé un giro di vite alle libertà. Ad esempio, la guerra ( ce ne stiamo rendendo di nuovo conto) determina l’irrigidimento se non l’irreggimentazione  del sistema sociale: si serrano i ranghi e si introducono divieti e controlli alla produzione, alla libertà di movimento eccetera. Lo  stesso discorso vale, fatte le debite proporzioni, per la calamità naturali. Però il dato fondamentale è rappresentato dall’imminenza ed entità del pericolo.  Due fattori, ci dice sempre la sociologia,  manipolabili dal punto di vista comunicativo (non nel senso stretto dei media).  Certo, un terremoto, resta un terremoto. Tuttavia, quanto più la cultura si allontana dalla natura, tanto più il fenomeno da contrastare diventa labile, perché i fatti segnano il passo rispetto alle opinioni scientifiche - attenzione, "opinioni", perché di scuola -  che, a loro volta, devono però  tradursi, in quei  dati statistici o meglio "parametri"  dai quali  poi dipendono le decisioni  politiche. Scelte che possono essere (ideologicamente) giuste o sbagliate, ma che, di sicuro, implicano sempre il giro di vite cui abbiamo accennato. Scelte compiute,  ripetiamo, su basi parametriche,  quindi convenzionali, se si vuole, presuntive (nel senso che presumono eccetera...).  Alle quali -   di nuovo,  attenzione -  i cittadini,  di regola, si piegano,  per ragioni  ideologico-morali legate alla integrità fisica personale ( “è per il vostro bene”) e per puro spirito gregario-emulativo (“lo fanno tutti”; “lo ha detto la televisione”; “si va in prigione” , “si paga una grossa multa”).
Insomma,  l’emergenza, ma a questo punto sarebbe giusto definirla cultura dell’emergenza,  mette in moto una specie di macchina sociologicamente acefala: si pensi a due mandibole che, una volta avviate,  cominciano ad aprirsi e richiudere sulle nostre libertà. 
Qualcuno potrebbe pensare che stiamo esagerando.  In realtà, quel che ci preme sottolineare è che nei processi sociali, la forma (le mandibole politiche) sono indipendenti dai contenuti ( la rappresentazione culturale dell’emergenza).  Di qui, il pericolo, se ci si passa la battuta, di usare la bomba atomica per uccidere un povero e libero passerotto. 

Carlo Gambescia
     

                

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