giovedì 31 dicembre 2015

La scomparsa di Sabino Acquaviva
Così vicino, così lontano


Di Sabino Acquaviva (*) come ultimo ricordo  abbiamo il suo fare capolino, sette-otto anni fa,  a una riunione di intellettuali  di varia estrazione  culturale e politica, organizzata da Alessandro Campi, allora direttore scientifico di “Fare Futuro”. Acquaviva si sporse dal portale che introduceva all’ antico e freddo salone della Roma patrizia. Esitava. Sembrava un passerotto, timido e curioso. Indossava  un giacchetto di pelle, da lontano, segaligno e in jeans,  ricordava un poco Pasolini.  Si mise seduto vicino all’uscita, senza poi dire una parola. Sparì, dopo una decina di minuti. Evidentemente, aveva capito tutto, in un lampo: la cultura critica, quella che piaceva a lui, non abitava lì.  Come, del resto, trent’anni prima, aveva subito compreso, molto prima di  chi scrive, che la Nuova Destra di Marco  Tarchi  non era che l’ennesimo flop in divenire di una cultura politica morente. Perciò leggere   benché su Wikipedia, dove si cita da un libriciattolo in argomento -  “considerato vicino alle idee delle Nuova Destra”, lascia perplessi. E parecchio.
Acquaviva ha rappresentato in qualche misura  il genio e la pavidità del sociologo di successo. Diciamo, da Prima Repubblica, imbevuta di futurismo (e buoni affari) catto-socio-comunista (socio, sta per socialista). Genio, per  gli studi pionieristici sulla secolarizzazione, dove però già trasparivano certe sue arcaiche perplessità da immaginario post-dossettiano verso la società moderna e di mercato;  pavido, per il suo atteggiamento,  non solo come studioso,   verso  l’ala più violenta e prevaricatrice della sinistra extraparlamentare, sconfinante nel terrorismo, alla quale egli concedeva, con ostinazione, un sostrato religioso, millenarista,  salvifico.  A tale proposito, il suo  Sinfonia in  rosso resta lettura interessante, come malinconico e terribile bilancio del dominio, barbaro e incontrastato, degli autonomi di religione toninegriana nell’università padovana.  Pagine dense, perfino dolorose in alcuni passaggi, che decostruiscono i disinganni di un teorico della resa.  A un tempo,  così vicino, così lontano  alle  e dalle cose che si imponeva di studiare (da vicino). E di  capire (da lontano), forse per tutto assolvere, benedicente. Come il  Papa di Morselli.
Acquaviva,  dentro  il secolare, cercava  ancora il sacro,  però separato dal trascendente.  Nulla di  male, era il classico  sociologo imbevuto  di  materialistica  e pragamatica cultura (però  con rimorsi) trial and error.  Di qui, i suoi inevitabili e rapsodici innamoramenti epistemologici e politici,  seguiti dalla regolare caduta delle illusioni: culturalismo, biologismo,  sinistra, destra. Però l’unico dato certo, rimane  che la ricerca, la sua, non poteva, non doveva finire. Mai. La ricerca come fine, non come mezzo.  In questo senso, Acquaviva  non era  vicino a nessuno. Forse neppure a se stesso.




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