mercoledì 21 gennaio 2015

Riflessioni
Decisione e rappresentanza, 
l’endiadi spezzata
di Giuliano Borghi



C’è uno spettro che da oltre mezzo secolo aleggia sul sistema politico italiano. E lo paralizza.
Si tratta del problema, a suo tempo non risolto dalla Costituente stessa, della forma-governo.
L’aver eluso il momento tipico  della Decisione, e averlo stemperato e soffocato in quello improprio della Rappresentanza, anche se una qualche ragione può essere trovata nella temperie di quegli anni, ha provocato prima un decennale blocco istituzionale, poi ha reso accidentato il percorso delle riforme filigrane nella Carta Costituzionale. Con conseguenze, sia politiche, quanto costituzionali deleterie per un buon governo della società italiana.
La Governabilità, la forma di governo, cioè, che può davvero essere tale perché in grado di decidere, attiene in proprio al momento della Decisione e solamente a questo.
Al momento della Rappresentanza appartiene, invece, la scelta di quel sistema elettorale che meglio può esprimere gli interessi, le passioni e le idee dei Cittadini. Questo vuol dire che neppure il migliore sistema elettorale è in grado di assicurare la governabilità, perché questa può essere trovata solamente nella sfera della Decisione, che è altra dalla sfera della Rappresentanza.
Insomma, prima si deve scegliere la forma di governo, poi il tipo di sistema elettorale coerente con la forma di governo voluta.
Ben diversamente si sono svolti i fatti al tempo dell’Assemblea Costituente.
Nel 1946, l’Assemblea Costituente affida alla 2° Sottocommissione il compito di dar soluzione alla questione della forma-governo. Su questo tema si trova incaricato della relazione introduttiva Costantino Mortati. Il giurista calabrese, dopo una analitica e ampia disanima delle possibili soluzioni, insistita sempre sull’alternativa fra un regime presidenziale, garante della stabilità e della unitarietà della direzione politica, e un regime parlamentare , garante della certezza del diritto e del rispetto delle minoranze escluse dal governo, indica alla fine come teorica via d’uscita, la creazione di un regime intermedio. Tecnicamente il suo buon funzionamento veniva assicurato da un potere forte di designazione del primo ministro, da parte del Presidente della repubblica, da un altrettanto forte potere del Parlamento nell’accordare o meno la fiducia al governo e dalla garanzia per esso di poter lavorare senza tema di imboscate parlamentari per un periodo fisso di almeno due anni.
Nel dibattito che ne segue in sottocommissione, la proposta Mortati non viene accolta.
Agli altri componenti appare subito chiaro che il quadro ipotizzabile per l’Italia di quelle ore, cioè pluripartitismo, diretta conseguenza del sistema elettorale proporzionalistico, nonché probabili governi di coalizione, avrebbe resa impraticabile l’ipotesi di un governo in grado di porsi come vero antagonista al parlamento e capace allo stesso tempo di programmi con forte coerenza.
A questo la soluzione più efficace poteva venire sola da un regime presidenziale. Coerentemente con questo, allora, Pietro Calamandrei chiede che la 2° sottocommissione si pronunci fermamente a favore dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, lì stabilendo il luogo della decisione.
Contro, interviene un altro costituzionalista, il democristiano Egidio Tosato, per ammonire  che in un sistema pluripartitico l’elezione diretta del Capo dello Stato avrebbe potuto generare un conflitto permanente tra esecutivo e legislativo. Preferibile, piuttosto, poteva essere il potenziamento della figura del Presidente del Consiglio con la clausola vincolante e protettiva che in caso di sfiducia solamente due dovevano essere gli sbocchi possibili. Nell’eventualità di una sfiducia votata a maggioranza assoluta, automaticamente diveniva Presidente del Consiglio il primo firmatario della mozione. Nell’eventualità di una sfiducia votata a maggioranza relativa, il Presidente della Repubblica avrebbe dovuto sciogliere le Camere.



Nessuna delle indicazioni, però, riesce a convincere totalmente. Viene dato incarico, allora, al repubblicano Perassi di tentare di rimuovere le difficoltà. Ma questi non trova altra soluzione se non quella di non decidere e presenta un ordine del giorno nel quale il problema irrisolto della forma-governo viene rimosso a beneficio del regime parlamentare, annegando così la Decisione nella Rappresentanza. Il 5 settembre 1946 l’ordine del giorno viene votato e inizia la vicenda di quel parlamentarismo semiassoluto che struttura la seconda parte della Costituzione.
Eluso il luogo legittimo della Decisione, il sistema parlamentare consegna ai partiti la funzione di “motori”costituzionali, di agenti nascosti della balance  costituzionale.
Purtroppo, fin dai quei tempi, i “partiti” non erano quegli ideali corpi intermedi “istituzionali” tra Stato e Cittadini, votati al bene comune, sognati da Costantino Mortati, la lezione del quale aveva esercitato una influenza determinante sulle scelte di voto del gruppo dei professori cattolici riuniti attorno a Giuseppe Dossetti. Ed evidente era già, per chi voleva vedere, che ri-fondare la legittimità politica sullo zoccolo della Rappresentanza, la fonte della quale erano i partiti di massa, più che una ingenua utopia, era l’avvio verso quella deriva politica e istituzionale che solo pochi anni dopo lo stesso Calamandrei avrebbe violentemente denunciato.
Ma così allora fu detto, così allora fu fatto.
E la domanda di governabilità è ancora oggi in attesa di una risposta definitiva.

Giuliano Borghi




Giuliano Borghi, docente di filosofia politica nelle università di Roma e Teramo. Ha pubblicato studi su Evola, Platone, Nietzsche, il pensiero tragico e la filosofia della crisi.  Si occupa in particolare dei rapporti tra pensiero politico ed economico dal punto di vista dell'antropologia filosofica.

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