sabato 24 gennaio 2015

Bernstein e la crisi economica attuale
C’era una volta il ceto medio… (*)
di Teodoro Klitsche de la Grange




Più di un secolo fa Eduard Bernstein iniziava la (notissima) “revisione” del marxismo, base del futuro sviluppo della socialdemocrazia (tedesca e non), con il saggio (preceduto da diversi articoli) “I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia”. Nel quale tra le varie critiche agli enunciati di Marx (e di Engels) la più celebre è quella alla “caduta del saggio di profitto” e alla conseguente concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione nelle mani di pochi, con generale proletarizzazione. Bernstein scrive che nel “Capitale” Marx “parla soltanto della «diminuzione costante del numero dei magnati del capitale», e anche nel terzo libro, in linea di principio, il discorso non muta. È vero che quando si viene a trattare del saggio di profitto e del capitale commerciale, si toccano fatti che rinviano ad una frammentazione dei capitali, ma senza trarne le conseguenze ai fini della nostra questione… Ma non è affatto così. La forma della società per azioni agisce, in larga misura, in senso contrario alla tendenza della centralizzazione dei capitali attraverso la centralizzazione delle aziende. Essa permette un vasto frazionamento di capitali già concentrati, e rende superflua l’appropriazione di capitali da parte di singoli magnati allo scopo di concentrare le imprese industriali”[1] e ne conclude “È dunque assolutamente falso ritenere che l’attuale sviluppo indichi una relativa o addirittura assoluta diminuzione del numero dei possidenti. Il numero dei possidenti aumenta non «più o meno», ma semplicemente più, ossia in senso assoluto e in senso relativo[2].
La critica era esatta: il capitalismo, lungi dal proletarizzare la società, ha aumentato il numero dei dipendenti e fatto espandere il “ceto medio”; i lavoratori con mansioni operaie sono largamente diminuiti (in percentuale) sulla forza-lavoro complessiva. Tutti fatti che provano come Marx ed Engels avessero errato le previsioni e, di converso, Bernstein avesse visto giusto.
Ma è vero da circa 20-25 anni ad oggi? Il capitalismo nuovo, globalizzato e finanziarizzato dei giorni nostri ha ancora l’effetto benefico del vecchio, di incrementare il numero dei possidenti, ridurre le differenze economiche e sociali e arricchire e non impoverire la società? Questo, almeno nel mondo sviluppato?
Chi scrive non è un economista e non ha dati sicuri: ma da molti indizi appare altamente probabile che il divario tra ricchi e poveri nel mondo sviluppato sia in aumento, soprattutto in Italia. Se questo fosse vero, come probabilmente è, occorre trarne le conseguenze sul piano politico.
Il sistema capitalista ha potuto espandersi nei secoli precedenti non solo per la – notata da Marx – capacità di incrementare la ricchezza generale con la produzione di beni e servizi a costi competitivi, ma anche per quello che affermava Bernstein: che riduceva il divario tra ricchi e poveri e aumentava il numero dei possidenti. L’incremento di un robusto (e crescente) ceto medio forniva così consenso e stabilità sociale e politica.
Ma se questo non avviene più occorre trarne i possibili prossimi scenari: che consenso e stabilità andranno a scemare, creando il presupposto per un futuro che non si riesce a delineare.
E quello che si può affermare è che questo futuro non sarà migliore del passato, e richiederà, comunque per mantenersi, l’uso dei mezzi “classici” della politica: la forza e l’astuzia. Per ora non appare – anche se ve ne sono i sintomi, almeno nelle aree “periferiche” del pianeta – che venga incrementato l’uso della forza. Tuttavia è evidente che lo sia quello dell’astuzia, attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione di massa e la manipolazione dell’opinione pubblica mediante – praticamente tutte – le tecniche collaudate all’uopo, della disinformazione alla distrazione dell’attenzione, dall’uso di un linguaggio soporifero ed edulcorato (neo-lingua, langue de bois, politically correct) alla vera e propria propagazione di notizie false.
Ma quanto potrà durare è imprevedibile: speriamo che avesse ragione Lincoln ad affermare che si può prendere in giro qualcuno per sempre e tutti per un periodo limitato, ma non tutti e per sempre.

Teodoro Klitsche de la Grange

(*) L’ottimo articolo dell’amico  Teodoro Klitsche  de  la Grange,  necessita di una precisazione su un punto fondamentale.  Ci spieghiamo subito.  Il divario tra  ricchi e poveri è nel Dna delle società (e dell’uomo): immutabile, piaccia o meno, come del resto provano i pionieristici studi di Pareto.  Il che  però non esclude l'esistenza, fin dai tempi di Aristotele, di una classe media, la cui consistenza può  fluttuare nel tempo. Quindi mai confondere il noto (esistenza di ricchi e poveri) con l'ignoto (le dimensioni della classe media).  Nonostante questo pericolo,  esistono, nell' ambito della distribuzione dei redditi,  due forme opposte  di rappresentazione delle gerarchie sociale:  la piramide e il fiasco. La piramide non richiede spiegazioni,  il fiasco sì:  parliamo di  un "fiasco" dal  collo sottile (i ricchi) e dal   fondo largo  (i poveri),  ma  non   più esteso  della “pancia" (il ceto medio).  Sicché,  da un lato,  gli avversari del capitalismo cercano di provare che  il ceto medio, la pancia, (più o meno dall’inizio degli anni Ottanta, complice il  "neoliberismo", quando si dice il caso…)  andrebbe irrimediabilmente assottigliandosi: di qui, il più o meno lento  trasformarsi del fiasco in piramide.   Dall’altro, i difensori del capitalismo  tentano di dimostrare   il  contrario: la persistenza del fiasco.  
In realtà,  le due diverse,  e pur potenti "derivazioni" (piramide e fiasco),  rappresentano  la riprova  di un fatto fondamentale:  che le dimensioni del ceto medio sono fluttuanti. E quindi difficilmente quantificabili una volta per sempre. Tutto qui.
Ovviamente, la portata retorica  delle interpretazioni (interessate) non è senza conseguenze politiche:   la  fluttuazione verso il basso, se giudicata  temporanea (come ritiene la destra filocapitalista ), può  rinviare a  un processo ciclico interno al capitalismo (crisi infrasistemica), se invece giudicata irreversibile (come ritiene la sinistra anticapitalista), può rinviare a un processo esterno,  senza possibilità di ritorno (crisi sistemica).  De la Grange, pur a  malincuore,  sembra ritenere  che si tratti di crisi sistemica:  da lontano, vede spuntare una piramide...  La sua fiducia nei cosiddetti istinti animali del capitalismo  sembra  essere addirittura inferiore  a  quella di Indro Montanelli: il quale, da grande scettico,  amava ripetere spesso  che  la  giusta difesa dei meccanismi dell' economia capitalistica non implica la frequentazione  dei capitalisti... 

(C.G.)     

Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).




[1] V. I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza,  Bari 1974, p. 87.
[2] Op. cit., p. 91

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