mercoledì 31 dicembre 2014

Il libro della settimana: Martin Jay, Le virtù della menzogna. Politica e arte dell’inganno, Bollati Boringhieri 2014, pp. 272, Euro 25,00.  



http://www.bollatiboringhieri.it/scheda.php?codice=9788833924991



Se  nel   libro di Martin Jay, Le virtù della menzogna. Politica e arte dell’inganno (Bollati Boringhieri), si  prova a cercare “la” risposta  alla questione posta nel titolo,  la si può  trovare alle pagine 254-255. Leggiamo:
 «Tuttavia, per quanto permeabili siano i confini delle sfera del politico, al suo interno la ricerca della perfetta verità non è soltanto vana ma anche  potenzialmente  pericolosa. Perché, paradossalmente, l’immagine speculare della “grande menzogna” può essere l’ideale della “grande verità”, la verità assoluta e univoca che  mette a tacere chi non  la accetta e tronca ogni discussione. Entrambe sono nemiche  del pluralismo di opinioni e del continuo dibattito, del confronto tra valori e interessi diversi»

Ciò significa che

« il politico che segue in modo intransigente  le proprie convinzioni aderendo a quella che Weber chiama Gesinnungsethik, “etica  della convinzione” o “dei fini ultimi”, in ultima istanza può fare più danni di quello che pratica  un Verantwortungsethik , un’etica della responsabilità»

Dal momento che 

« la politica, a prescindere da come vogliamo  definirne l’essenza e limitarne i confini, non sarà mai una zona interamente libera dalla menzogna, una sfera di autenticità, sincerità, trasparenza e giustizia. E che in forse (…) in fin dei conti è una buona cosa»

Ora, il lettore si chiederà per quale ragione  recensire un libro partendo dalla chiusa… Insomma, perché svelare subito, il nome dell'assassino...  Perché parliamo di un saggio, non di un  giallo. E quindi per  onestà verso i possibili lettori.   Poiché, quel che deve essere  subito chiaro, è  che l’ottimo lavoro di Jay,  professore di storia delle idee alla Berkeley ( autore, sempre per i tipi di Bollati Boringhieri, di una eccellente  studio sulla Scuola Francoforte*),   non è adatto alle anime belle, tipo  il suo maestro: Henry Stuart Hughes, storico di Harvard ben noto per i suoi lavori  di italianistica, comunque rilevanti.  Insomma, chiunque si proponga di trasporre in politica, magari  manu militari ( perché i giustizialisti,  si sa, hanno sempre un lato oscuro…) i  criteri dell’etica assoluta, troverà pane per i suoi denti.  Perché   Jay, se ci si passa l'espressione, in quattro densi capitoli (inclusa l'introduzione), di elegantissima Intellectual History (**),  smonta il paradigma “buonista”, senza però mai scadere nel “cattivismo” programmatico, o se si preferisce nel cinismo a buon mercato. Naturalmente, per chi non conosca il modus operandi di Jay, parliamo di un libro complesso, metodologicamente impeccabile (un pastoso esempio di métier d 'historien),  non privo di sfumature, di prudenti antilogie e analogie, di taglienti  analisi linguistiche, nonché sapienti  rinvii alla tedesca  Geschichtliche Grundbegriffe.  Sempre però con il piglio del professore americano in cerca di nuove frontiere cognitive.  
Nell'  introduzione, (“Le virtù delle menzogna”) Jay si dichiara subito per un approccio realistico, assai distante dal mainstream puritano statunitense: da un lato, scrive,  va tenuta presente la natura umana per quel che è: ciò significa che  non si può ignorare l’ ineliminabilità  della menzogna dal cuore dell'uomo; dall’altro,  nota,  non si deve  mai dimenticare  che la politica non può farne a meno  a tutti i livelli,  perché  la menzogna, talvolta è  strumento difensivo del debole contro il forte.  Quindi prudenza con la ghigliottina dei valori  assoluti…  
Nel  primo capitolo (“Sul mentire”), dopo un dottissimo excursus negli ambiti della psicologia, della biologia, della sociologia, della linguistica, nell’ultima parte (“Menzogna e morale”), si propone un denso e paradigmatico confronto Kant-Constant: il primo, che aveva  osservato la Rivoluzione (francese) da lontano,  insiste troppo  sulla natura assoluta dell’etica ; il secondo, che invece  aveva visto  i giacobini all’opera, ne teme la geometrica arroganza.  Da un lato il rigorismo morale (monovalente, dunque impossibilista e pericoloso), dall’altro, la prudenza politica  (polivalente, quindi meno esclusiva e possibilista). Jay,  come vedremo,  rivaluta  Constant.
Nel  secondo  capitolo (“Sul politico”), che in qualche misura, per  ricchezza espositiva, è una specie di libro a parte, si approfondisce, prima del rush finale, cui abbiamo già  accennato,  il concetto di politico come essenza o, più moderatamente,  sfera autonoma.   Jay  prende in considerazione sei definizioni: 1) il politico come antagonismo amico-nemico (la politica come guerra tout court:  qui il protagonista  è Carl Schmitt, pur con molte, giuste,  riserve);2) il politico come agonismo (la politica quale ricerca di un equilibrio sempre instabile, come nel pensiero dei teorici della Ragion di  Stato, ma anche, curiosamente, in quello delle beghine  seguaci dello Stato etico. E qui fa si affaccia Hegel); 3)  il politico come contrattualismo (la politica  quale  pacifica negoziazione degli interessi: Hobbes, soprattutto Locke e la tradizione liberale); 4) il politico come governo del saggio (la politica quale  frutto dolciastro  di un  benevolo   elitismo cognitivo: qui, tra gli altri giganteggiano Platone e Leo Strauss); 5) il politico come virtù repubblicana (la politica quale  realizzazione maggioritaria del bene comune: da Machiavelli alla Arendt); 6) il politico  come estetica,  (la politica quale culto del bel gesto, anche collettivo,  e progressiva  deificazione di feticci sociali di volta in volta diversi:  dagli organicismi post-medievali alle rivoluzioni conservatrici novecentesche fino ai languidi tramonti dei decostruzionismi post-moderni  ).
Va da sé  che ogni definizione  rinvia,  oltre che a un sistema istituzionale,  al tortuoso rapporto tra politico e menzogna.  Argomento al quale è dedicato il terzo capitolo ( “Sulla menzogna in politica”). Precisazione importante: Jay, come abbiamo visto,  sembra  accettare la distinzione tra “politico” e “politica”,  ma - ecco il punto -  non  nei  termini di quel che giganteggia   in senso  metastorico (e  che  perciò  trascende la politica nelle sue manifestazioni storiche: il transeunte),  bensì di corpose,  durkhemiane, costruzioni culturali, o  almeno così sembra   All’approccio essenzialista di Schmitt e Freund (eccellente studioso, purtroppo  trascurato nel libro…), Jay oppone un costruttivismo  moderato.  Di che genere?  Cerca  di coniugare, l’essenzialismo di Schmitt,  il prudente cognitivismo  liberale di Constant, l’esigente repubblicanesimo ad alta intensità gnoseologica  della Arendt.  Vi riesce? Non vi riesce? Qui dovremmo sospendere  il giudizio… Perché  mettere insieme -  semplificando al massimo -   Schmitt (pure con le riserve di rito), Constant, Arendt è  roba da Rambo della Intellectual History. E come per il film di Ted Kotcheff, l’operazione può generare nello spettatore in sala  (qui studiosi e lettori)  reazioni opposte ed estreme:  o   di odio  o di amore. Diciamo però che a noi il "film" di Jay è piaciuto.  E comunque sia,  lo si  raccomanda  a tutti coloro che desiderino scoprire, da vicino, come lavora il perfetto storico delle idee.  Infatti,  al di là dei risultati -   buoni, comunque -   non si può non restare ammirati  dal “mestiere” di Jay: dalla  sapienza euristica  con cui prepara  il suo cocktail storiografico. Uno spettacolo nello spettacolo.          
Perciò riassumendo (anche rispetto alle conclusioni del  terzo capitolo): il politico (in senso di sfera autonoma) come lotta mortale amico-nemico accetta la menzogna come arma letale nella lotta per la sopravvivenza;  il politico come agonismo, vi aderisce, scorgendovi  un necessario  strumento diplomatico; il politico come contrattualismo, vive, spesso male,  la contraddizione tra una certa dose di ipocrisia, propria della prassi liberale, e il percepire se stesso come alternativa alla politica ipocrita: contraddizione che talvolta, si tenta di superare ricorrendo alla versione mano invisibile, per poter così  criticare,  dall’alto di un misterioso provvidenzialismo sociologico,  il moralismo in politica;  il politico come governo del saggio, suddivide invece le menzogne  rispetto alla loro capacità di favorire la conservazione del buon governo; il  politico  come virtù repubblicana è duramente  segnato dall’intreccio verità/menzogna: tra una verità coercitiva che discende dall’alto e una menzogna difensiva, liberatoria,  che vi si oppone dal basso. Che a sua volta, però, una volta istituzionalizzata,  può trasformarsi da difensiva  in oppressiva tirannia di una maggioranza composta di presunti deboli, e così via, lungo le strade della storia (ma può esistere una repubblica pluralista? La Arendt, dalle cui sapienti dissezioni concettuali,  Jay trae sostegno,  non sembra dare risposte esaustive); infine il politico  come estetica, sprofonda  nella menzogna  ogni volta che al simbolico, componente sociologicamente  necessario,  sostituisce l’immaginario. Per quale ragione? Perché correndo sulle ali della fantasia  ( magari con i pascaliani occhi bendati)   si finisce sempre  per sottovalutare un fatto importante:  le menzogne pronunciate nella sfera politica, a differenza di quelle dette o scritte nella sfera   “letteraria”,   hanno sempre conseguenze reali. E, se credute ( o "bevute")  fino in fondo,  possono  uccidere uomini in carne e ossa...
Sicché, conclude saggiamente Jay, «forse il meglio che si possa sperare in politica è un calcolo morale utilitaristico, analogo alla casistica probabilistica che tanto suscitava sdegno nei rigoristi giansenisti e puritani, il quale soppesa le diverse trasgressioni e consente che il politico consapevolmente e con coraggio prenda su di sé il gravoso onere di sporcarsi le mani  per una causa superiore. La riposta di Constant all’assoluta proibizione kantiana  della menzogna, anche se non applicabile  in tutte le circostanze, è tuttavia valida per il politico, il quale non può  separare facilmente, se mai può farlo del tutto, il mondo noumenico dal mondo fenomenico, il mondo dei principi dal mondo degli effetti. L’interazione, ovviamente, precede nelle due direzioni».
C’è da aggiungere altro? Sì, leggete il libro di  Martin Jay.

Carlo Gambescia       
                              


(**)  Per un bilancio critico del  pensiero di Jay  si veda The Modernist Imagination: Intellectual History and Critical Theory: Essays in Honor of Martin Jay, curato da  cinque suoi ex allievi Warren Breckman, Peter E. Gordon, A. Dirk Moses, Samuel Moyn, and Elliot Neaman.  Per un bilancio critico del bilancio critico, anche se a volo di uccello,  si veda qui: http://www.h-net.org/reviews/showrev.php?id=26129

Nessun commento:

Posta un commento