mercoledì 9 ottobre 2013

A cinquant’anni  
dalla  tragedia del Vajont...
di Carlo Pompei




Una cosa  è certa:  il giorno precedente la sciagura, la direzione generale della SADE(Società  ADriatica Elettrica), informata dell’ intensificarsi dei fenomeni tellurico-tettonici,  predispose - con un telegramma - l'interdizione della strada di circonvallazione  che portava alla diga sul versante del Toc, già paurosamente deformata:  gli alberi circostanti erano in posizione quasi orizzontale. Provvedimento  minimale, peraltro inutile, visto che le amministrazioni di Erto-Casso impedivano  da tempo quel passaggio (e comunque chiunque con un po' di cervello non vi  sarebbe transitato), ma cosa ci  garantisce che la situazione fosse monitorata:  qualcuno sapeva che qualcosa vacillava e tremava.
 Le prove di invaso proseguivano, come non mettere in relazione gli avvenimenti?  Secondo Mauro  Corona, 
 poliedrico  e schivo cittadino ertano,  «La diga e il suo collaudo offuscarono le menti: l'investimento fatto  necessitava di ingenti ed urgenti riscontri economici, bisognava entrare in  produzione. Non si pensò ad evacuare i paesi circostanti, non si pensò  che l'acqua, scalzata da un grande massa franosa, avrebbe superato facilmente  lo sbarramento, come già aveva tentato di fare nel 1960, quando però  la cubatura dello slittamento e il livello dell’acqua nel lago artificiale  erano nettamente inferiori. Più drammaticamente, non si pensò  affatto a Longarone»… 
Ora,  una piccola cronologia.
Entro il 12 dicembre  1962 la SADE  doveva  consegnare all’ENEL, monopolista pubblico, un impianto funzionante, di riflesso i lavori subiranno un' accelerazione.
Il 14 marzo 1963 avviene il passaggio di proprietà della  struttura, in aprile ha luogo la terza ed ultima prova di invaso indispensabile  per dimostrarne e garantirne il perfetto funzionamento e conseguente utilizzo.  L'ingegner Biadene calca la mano e sbaglia: "Invasare fino a 715".  In settembre si raggiungerà quota 710 (o 712, anche in questo caso  le fonti sono discordanti). Da questi valori non ci si potrà più  muovere, movimenti sismici al minimo mutare del livello terrorizzano tutti  e paralizzano la SADE: se l'acqua scende, la frana cade; ma, se cade lo stesso,  a questa quota provocherà la tracimazione. 
L'8 ottobre. Biadene, visto il precipitare degli eventi, chiede un'ordinanza  di sgombero della zona; troppo tardi. Ha due alternative: commettere un errore in un senso o commetterlo nell'altro.  Ordina lo svaso fino alla quota di sicurezza 700 metri: non ci si arriverà  mai. La frana si muove ormai a vista d'occhio.
Il 9 ottobre, 22.39. D'un tratto tutta la "M" sul Toc – parole di Mauro Corona -  "venne  giù" velocissima e compatta,  "il gigante dai piedi bagnati era stato colpito  alle ginocchia"; la diga sopportò,  sì, l'impatto, ma non riuscì a contenere l'acqua contenuta  nel bacino. Questa venne proiettata contro la montagna di fronte, verso Casso,  e poi, con un'onda alta duecentocinquanta metri e larga più della diga  stessa, la scavalcò e precipitò giù per la gola, trecento  metri più in basso. La percorse con una velocità stimata superiore  ai cento chilometri orari, portando con sé pietre pesantissime, fango,  detriti e poveri resti umani che aumentavano man mano che la devastazione  e l'eccidio si compivano. Cinquanta milioni di metri cubi d'acqua erano stati  messi in movimento.
Nel frattempo un'altra ondata, minore, ma altrettanto distruttiva, si muoveva  in direzione opposta, verso Erto, risparmiata nella parte alta grazie ad uno  sperone di montagna che fece da sponda; per gli abitanti del fondo valle ertano,  per le loro case e per i loro animali, però, non vi fu scampo. 
Intanto l'onda più grande in meno di cinque minuti raggiunse Longarone:  non più costretta dalle pareti della gola era ormai alta "soltanto"  settanta metri, ma il suo fronte si era allargato a dismisura, probabilmente  oltre un chilometro. Un'onda d'urto  - che neanche una bomba atomica come quella sganciata su Hiroshima è  in grado di eguagliare - aveva preceduto l'acqua compromettendo seriamente  tutte le strutture e uccidendo smembrandoli quanti si trovavano all'aperto.  Coloro i quali si accorsero che su, alla diga, qualcosa non era andato per  il verso giusto non ebbero il tempo materiale di reagire, men che meno gli  altri. 
L'onda a Longarone si divise di nuovo: una parte risalì il letto del  Piave, l'altra, ancora molto alta e compatta, prese la direzione del  mare continuando la sua opera devastatrice.
Con il riflusso delle acque il fiume livellò quanto restava di Longarone  e delle frazioni limitrofe che sparirono sotto una spessa e piatta coltre  di fango destinata a solidificarsi. In totale 1917 morti, dei quali 1450 nel fondo valle: l'80% dei presenti.
La scena che  si palesò agli occhi dei primi soccorritori all'alba del 10 ottobre  1963 è paragonabile soltanto alla città di Pompei dopo l'eruzione  del Vesuvio nel 79 d.C.; ma se l'effetto fu simile, la causa fu totalmente diversa.  Ricordare e fare luce su tragedie causate esclusivamente dalla cupidigia  e l’irresponsabilità dell’ uomo è un dovere nei confronti  di coloro i quali quel giorno persero la vita e nei confronti dei sopravvissuti; ed è un impegno al fine di scongiurare simili disastri in futuro.
Carlo Pompei


Le  foto sono di Carlo Pomepi
Foto  di Carlo Pompei © 



Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.


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