giovedì 19 settembre 2013


Il libro della settimana: Brigitte Mazohl e Paolo Pombeni ( a cura di),Minoranze negli imperi. Popoli fra identità nazionale e ideologia imperiale,  il Mulino 2013, pp. 470,  Euro 34,00. 


Nella Sociologia degli imperialismi scritto nel 1919,  Schumpeter, di lì a poco ministro delle dissestate finanze austriache, sostenne che capitalismo  e  militarismo, nonostante tutto,  non potevano andare d’accordo. A suo avviso,  l’imperialismo non rappresentava la fase suprema del capitalismo come invece aveva  sostenuto Lenin:  imperi e imperialismi appartenevano al passato, in quando stati-militaristi e burocratici. Un mondo dove regnasse la libera concorrenza, come per larga parte del  XIX secolo,  non poteva non essere sinonimo di  progresso economico, di  pace e crescente benessere  per tutti. E su  quel mondo si doveva puntare...  Altrimenti,   il burocratizzarsi  del  capitale,   momentanea  deviazione indotta dal bellicismo, avrebbe  potuto spalancare   la porta  a  continue  avventure militari di sapore reazionario.

Un atto di fede? Forse. Comunque sia,  in quel libro Schumpeter  pose  un  problema fondamentale:  quello dell'ambiguo rapporto tra politica (soprattutto internazionale), come lotta per l’egemonia e l’ economia (capitalistica) quale  perseguimento pacifico  del benessere collettivo.  A suo parere, nel quadro delle egemonie imperiali,  i cannoni finivano sempre per prevalere sul burro:  ogni impero, racchiudeva in sé, estendendosi militarmente oltremisura,  i germi del dissolvimento economico e di conseguenza politico. Quindi - probabilmente così pensava Schumpeter - capitalismo avvisato mezzo salvato...  
Si dirà, tesi non nuovissima. Ma, in ogni caso, attenta alle questioni concrete e  nemica di quella bolsa retorica  sui concetti di impero e imperialismo,  che tuttora  affascina utopisti di destra e sinistra.  
Un lodevole realismo storico (e politico) che ritroviamo in Minoranze negli imperi. Popoli tra identità nazionale e ideologia imperiale (il Mulino),  ricco volume  curato da Brigitte Mazohl e Paolo Pombeni,  pubblicato  nella prestigiosa collana di quaderni degli Annali dell’Istituto storico-germanico di Trento/Fondazione Bruno Kessler.
Infatti, la questione delle minoranze tra gli anni Ottanta dell’ Ottocento e la Primaguerra mondiale è lo specchietto tornasole del problema schumpeteriano, perché permette di comprendere l' impatto dello sviluppo economico sulla cultura dello stato-nazione. E principalmente nei suoi risvolti di  sfida all’ unità imperiale, e dunque egemonica,  in Germania, Austria asburgica, Russia,  Gran Bretagna, Impero Ottomano. Naturalmente,  nel volume sono affrontati anche gli aspetti ideologici del concetto di impero: si parte da Roma (Elvira Migliaro), passando per  Napoleone (Michael Broers), per giungere, studiandone le trasformazioni (Brigitte Mazohl), alla  vera e propria  analisi  storico-tipologica (Andreas Fahrmeir, Guido Hausmann, Federico Biagini).  A dirla tutta, i saggi più avvincenti sono quelli  sulle  minoranze in senso specifico:  Impero Ottomano (Marco Dogo) e Asburgico:  gli Slovacchi ( Elisabeth Gasser), gli italiani (Marco Bellabarba). Molto  opportuna l'attenzione riservata alla comunità  religiose (Rupert Klieber).  Non meno interessanti, infine, le analisi dedicate alle  burocrazie militari britanniche (Edward M. Spiers) e asburgiche (Rok Stergar), quali  fattori di integrazione a doppio taglio, soprattutto  nell’Impero Austro-Ungarico.
È possibile individuare un denominatore comune?  Sì.  E quale?  Come detto,  quello costituito dagli effetti di ricaduta della modernizzazione economica, o per dirla con  Schumpeter del ciclo capitalistico  Un fattore che interagendo con la modernizzazione politica  mise  nell’angolo le élite tradizionali ( aristocratiche e militari), incapaci di fare  i conti con la democrazia politica ed economica dei moderni e perciò  di integrare le minoranze, se non ricorrendo,  per ricompattare,  al  puro espansionismo bellico:  scelta  che condusse  alla Prima guerra mondiale e al  conseguente dissolvimento  degli imperi  per ragioni economiche e, diciamo così, per  l'incapacità culturale di  pensare la pace,  coniugando ideologia  imperiale  e rispetto (istituzionalizzato) delle diverse componenti  identitarie. 
Il punto è ben colto da Pombeni: « In definitiva gli imperi finirono in gran parte per essere incapaci di trovare quei meccanismi di “invenzione della tradizione” (per usare una celebre formula) che sarebbero stati necessari per fondere le fedeltà di appartenenza comunitaria, nazionali o di altro genere che fossero, in identità politiche imperiali, coniugandole però  con una convinta accettazione del nuovo orizzonte del costituzionalismo rappresentativo. Non per caso l’unico contesto in cui questo connubio si realizzò in larga misura fu la Gran Bretagna (…). Ciò[comunque, ndr] non impedì che in  Gran Bretagna si verificasse l’unica importante sollevazione indipendentista durante la guerra , la famosa rivolta di Pasqua a Dublino dal 24 al 30 aprile 1916, repressa draconianamente dagli inglesi, ma pur sempre con il favore di un sentimento di lealismo bellico che impedì alla rivolta di estendersi oltre i gruppi più radicali» (pp. 468-469).
E qui si torna, in generale,  al problema posto  da  Schumpeter:  della guerra come fattore  aggregatore-disgregatore  delle unità imperiali, smodate  consumatrici  di  risorse economiche e umane. E più  in particolare all' "evento" Prima guerra mondiale,  quale  punto di svolta (negativo)  per lo sviluppo capitalistico.  Un regresso economico-sociale  poi approfondito da Schumpeter  in Capitalismo, socialismo e democrazia (1942). Parliamo dell' "innesco"  di  un gigantesco  processo sociale, al servizio dello sforzo bellico,   verso  un’economia sempre  più centralizzata e burocratizzata.  Un’economia di comando  capace però  di provocare, per reazione, effetti centrifughi nelle minoranze sottomesse, come  avvenne  tra   il primo e  il lungo secondo dopoguerra, fino al punto di  favorire,  se non determinare,  la decomposizione degli imperi e la chiusura del ciclo imperiale moderno.

Il che però, anche dopo il 1991,  non ha rappresentato la fine della lotta per l’egemonia tra gli stati. Evidentemente, il progresso economico, a differenza di quel che riteneva Schumpeter nel 1919,  almeno da solo,  non garantisce la pace.  L’ultima parola,  costi quel che costi,  sembra  spettare sempre alla politica. E alle nazioni più forti, le uniche capaci di esercitare l’Imperium. Qualcuno lo spieghi a Barack Obama.  

Carlo Gambescia                 

Nessun commento:

Posta un commento