mercoledì 5 giugno 2013


La politica (estera)  italiana
vista da Henry Kissinger

 

1973.  Kissinger e Mao, grandissimi  realisti politici (sullo sfondo Chou En-lai)


Ieri l’amico Marcello Teofilatto, fedele lettore del blog, si (e ci) interrogava sul fatto che «la grande assente nel dibattito politico», sottendendo crediamo - lo scenario italiano, «è la politica estera».
Osservazione giusta. Tuttavia  l’argomento  è spinoso. E per giunta, da non specialisti della materia (a malapena riusciamo a occuparci di sociologia),   rischiamo di dire solo banalità. 
Del resto, quale politica estera ci si può aspettare da una classe politica ripiegata dal 1945 su questioni interne, spesso di bassissimo profilo?   In fondo, il rifiuto della guerra inserito in pompa magna  nella Costituzione,   indica  in linea di principio il rifiuto di continuare a  fare politica con altri mezzi:,  quelli  della guerra. Lo strumento,  fin da quando si  usava la clava ( anche solo come semplice minaccia), preferito dall'uomo  per regolare in ultima istanza  le questioni politiche.
Insomma,  di necessità si è fatta virtù. Detto altrimenti: il rifiuto della guerra è la classica foglia  di fico retorica per coprire idelogicamente vergogne o debolezze politiche.  Quali?  Difficile dire.  Anche perché non  desideriamo  allargare l’analisi.  Non ne saremmo capaci.  Offriamo però ai lettori come piccolo viatico,  un’illuminante riflessione di  Henry Kissinger sui “limiti” storici interni (e di riflesso anche esterni)  della classe politica italiana.  Osservazioni che  risalgono al 1969,  anno in cui Nixon, di cui Kissinger era consigliere, visitò l’Europa e l’Italia:

« Nessun leader di qualsivoglia partito Partito [italiano, ndr] aveva un programma concreto, dato che l’equilibrio di forze che avrebbe potuto trovare contava di più delle sue idee per svolgere il proprio incarico quando l’avesse raggiunto (…). L’Italia molto curiosamente , non aveva ancora rotto con la tradizione rinascimentale. I partiti svolgevano il ruolo di quella congerie di città-stato che aveva dominato tanta parte della Storia d’Italia (…). Molte di queste tendenze emersero in un incontro formale allargato con il governo ( al quale furono presenti quasi tutti i ministri) a villa Madama (…). L’incontro fu preceduto da un colloquio privato fra Nixon e il presidente del consiglio Rumor; incontro destinato a non concludere niente, dato che Rumor non poteva assumersi impegni senza previa consultazione con i suoi ministri, e che tutti i ministri erano a loro volta troppo numerosi per poter discutere su un argomento specifico nel corso di una seduta plenaria (…). Gli interessi italiani erano: la fine della guerra in Vietnam al fine di tacitare il leitmotiv della propaganda comunista; l’incoraggiamento dell’entrata della Gran Bretagna nel Mercato Comune; l’ostilità nei confronti degli orientamenti gollisti, la conquista delle simpatie dell’Est per dare uno scopo all’Alleanza Atlantica. Questi propositi vennero enunciati nella forma di amichevoli esortazioni rivolte a un fedele alleato, e non furono accompagnati da alcuna proposta specifica. I ministri italiani tacevano sui problemi della difesa» (H. Kissinger, Gli anni della Casa Bianca, SugarCo Edizioni 1980, vol. I, p. 96).

Va notata  l'apprezzabile chiusa kissingeriana (da « Gli interessi italiani erano... »), un misto di ironia, stupore e  in fondo, crediamo,  simpatia per gli  italiani,  plasticamente colti  come abilissimi  maestri nell'arte della sopravvivenza:  nel fare, come dicevamo, di necessità virtù.   È così cambiata, da allora,  l’Italia  politica? 
Illuminante, per contrasto,  anche il passo successivo:

«L’ultima tappa (…) fu Parigi, dove venimmo salutati all’aeroporto da quello straordinario personaggio che fu Charles de Gaulle, presidente della Quinta Repubblica francese. Trasudava autorità » (Ibid., p. 97).


Capita l’antifona? Buona giornata a tutti.

Carlo Gambescia

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