martedì 28 maggio 2013

Gianni Alemanno, Alessandro Campi 
e la spasmodica ricerca di un sasso da far  "voltolare"…



Diciamo subito che la ricomposizione -  parola grossa - della destra di origine  neofascista (da Storace ai naufraghi di Fli)  non è più  un argomento di grande interesse politico, né politologico:   quattro gatti spelacchiati,  litigiosi e  dalle  idee  confuse. E con un elettorato, in prospettiva, da prefisso telefonico. Tuttavia ci ha colpito, e spiacevolmente, un articolo di Alessandro Campi, apparso su “Il Foglio” (http://www.ilfoglio.it/soloqui/18358  ). Dove lo storico dell’ Università di Perugia, non smentendo la sua fama di studioso dalla cotta politica facile,  spezza una lancia per l'unificazione,   cambiando però  di nuovo cavallo. E, questa  volta,  a chi lancia il carotone?   A Gianni Alemanno.    
Campi ricorda  - certo,  si parva licet -   il Machiavelli  pubblico della chiusa de  Il Principe  in cui si invocava l'intervento unificatore della Casa dei Medici.   Ma anche il Machiavelli privato,  anzi privatissimo,  in riposo forzato causa cambio regime,  che sperava di guadagnarsi il favore dei «Signori Medici» ritornati al potere dopo la parentesi repubblicana. Insomma, gli stessi Medici che lo avevano messo alla porta. «Mi cominciassero adoperare - scriveva all’ amico Vettori – [quand’anche] se dovessimo cominciare a farmi voltolare un sasso; perché, se poi io non me li guadagnassi, io mi dorrei di me»…
Ma lasciamo il sasso, pardon la parola a Campi::

«[Alemanno] Da un lato deve convincere i cittadini romani a confermargli la fiducia ottenuta cinque anni fa, spiegando loro che la sua sindacatura – piena in effetti di errori e occasioni mancate – è stata a conti fatti meno catastrofica di come la raccontano gli avversari più risoluti e la stampa che li spalleggia (basti un’occhiata alla copertina dell’ultimo fascicolo dell’Espresso). Dall’altro, Alemanno è l’ultimo esponente della destra italiana – quella che provenendo dal Msi ha poi dato vita per tre lustri all’esperienza di Alleanza nazionale – che possa ancora aspirare ad una carica pubblica di una certa importanza e a giocare un qualche ruolo a livello nazionale. Ed è su quest’ultimo aspetto che forse vale la pena fare qualche ragionamento» (I corsivi e gli inserti tra parentesi quadre, anche quelli che seguono,  sono nostri).

Il meglio però deve ancora venire:

«E Alemanno, nel caso dovesse riconquistare il Campidoglio, parrebbe l’uomo giusto – per il prestigio e i mezzi che gli deriverebbero dal ruolo – sul quale puntare per una simile operazione. Tenendo anche conto che Roma è, per antiche ragioni storiche, la patria d’elezione della destra italiana in tutte le sue possibili espressioni: un simbolo identitario, un richiamo mitologico e ancestrale, prim’ancora che un terreno dove affondare le proprie radici organizzative e dove formare i propri ranghi».


Notare la strizzatina  d’occhio  finale,   in stile aquila littoria con pendant   mazziniano-garibaldino.  Filone con cui   fascismo  e neofascismo  hanno lungamente inciuciato. Sul mito di Roma correttamente  inteso  in tutte quelle  sfaccettature ( e   diversità tra l'interpretazione  liberaldemocratica e nazionalfascista),  su cui Campi sembra  agilmente sorvolare,  rinviamo i lettori  alle due storie  di Croce, da leggere in parallelo, e per contrasto, con  le pagine, comunque mai banali,  di Volpe.   Nonché alla  tuttora maestosa  Premessa  di  Federico Chabod, grande storico liberale. Senza dimenticare le pagine  altrettano dense e belle  di Walter Maturi, eccellente  storico del Risorgimento.
Ma c'è dell'altro.   Sulle ragioni che hanno provocato  l'implosione della destra di matrice neofascista,  Campi, ex consigliere di Fini, un po’ per auto-assolversi,  un po’ per  inventarsi una  linea di contnuità tra Alemanno e l’ex Presidente di Fli,  un po'  per impadronirsi  del  sasso  di cui sopra,  preferisce buttarla, come si dice a Roma, in caciara. Naturalmente prendendola da lontano. Leggiamo:

«Ma l’obiettivo di ricomporre la diaspora di questo mondo, rimettendo insieme quel che ne rimane, forse richiederebbe un’operazione preventiva di chiarimento sulle ragioni che hanno prodotto la sua débâcle. Per evitare che tutto si risolva, ammesso poi che l’operazione riunificatrice riesca, in un abbraccio nostalgico, inevitabilmente strumentale, tra reduci che temono per la propria sopravvivenza bisognerebbe insomma fare prima un collettivo e pubblico esame di coscienza, che sinora è del tutto mancato. Il che equivarrebbe a chiedersi, ad esempio, cosa non ha funzionato – sul piano politico-culturale – nella nascita, nell’azione e nelle scelte di Alleanza nazionale, un partito che in vent’anni non ha mai visto modificarsi il suo gruppo dirigente. A interrogarsi sulla natura del rapporto che la destra italiana ha stretto con Berlusconi e il berlusconismo (quanto è stato al dunque soffocante e/o penalizzante, dopo l’euforia e gli indubbi benefici seguiti all’operazione di sdoganamento operata e sempre vantata dal Cavaliere?). A domandarsi quale sia stato il senso autentico del tentativo di smarcamento da quest’ultimo condotta da Fini, invece di apostrofarlo come il traditore per eccellenza di una fazione politica che psicologicamente sembra non essersi mai emancipata dalla “sindrome di Badoglio” e dalla necessità, dinnanzi alle proprie sconfitte e manchevolezze, di cercare sempre il fellone cui appiccicare l’etichetta di voltagabbana»

Siamo d'accordo sulla  "sindrome Badoglio". Anche se  a criticarla è l' ex consigliere del Badoglio di turno... Conflitto di interessi? Ai posteri l'ardua sentenza.   Quanto al senso autentico,  presto detto: i post-fascisti di An dovevano lavorare dentro il Pdl.  «Smarcarsi» come scrive Campi, ma rimanendo all' interno.   Senza  immaginare  improbabili destre repubblicane, ideologicamente fondate sul Manifesto di Verona riletto alla luce dell’Impresa fiumana e dello sgangherato Sessantotto italiano. E per giunta tentando di mettere insieme, Mussolini, D’Annunzio, de Gaulle, Che Guevara e Mario Capanna.  È vero che una destra "normale" deve parlare di legalità. Ma deve anche criticare il giustizialismo, le tasse altissime,  il burocratismo, gli sprechi pubblici.  E soprattutto evitare, se ci si perdona l’espressione,  di dire fregnacce pseudo-libertarie che la sinistra, per Dna,  sa dire  molto meglio della destra di origine  neofascista.
Max Weber riteneva  che il ruolo dell’intellettuale  in politica  non fosse  quello di assecondare il Principe, bensì di consigliarlo circa la coerenza tra mezzi e fini da perseguire. Il succo del discorso weberiano, attualizzato, è il seguente: se ci si colloca a destra si devono dire e fare cose di destra, e non cose di sinistra, perché a sinistra, sanno farle e dirle meglio. In politica, la tattica è importante ma non quanto la strategia. E qui emerge un punto fondamentale: che il neofascismo italiano, per storia ideologica, non è  mai stato compiutamente di destra né di sinistra.  La "terza via" era e  resta una specie di  toppa ideologica per coprire due magagne di fondo:  disorganicità politico-culturale  e  fame, spesso atavica, di onori e prebende.   Di qui  però la grande confusione, che per l'appunto  risale al fascismo, tra “regimisti” e “movimentisti”, tra destra e sinistra fascista, tra tradizionalisti e modernisti, tra borghesi e antiborghesi, eccetera, eccetera.  Parliamo di una specie di mantra  ideologico  via via  trasmigrato nel Msi,  An,  An-Pdl e  Fli.   Perciò è ovvio che una volta spariti i valori (anche se pseudo…), e strumentalmente per acquisire, come  osserva  Campi, i «benefici seguiti all’operazione [berlusconiana] di sdoganamento»,  siano  rimasti solo gli interessi.  Tuttavia,  se tra i diadochi si tornerà  in qualche misura a parlare di valori,  torneranno a galla anche  le vecchie  idee fasciste del né destra né sinistra, magari mascherate  da ideologia repubblicana in versione giacobina,  o peggio,  da qualche altro pericoloso   fantasma olistico. Tanto resta sempre il pescoso  mare magnum  del sansepolcrismo...   Insomma, chiacchiere e distintivo, distintivo e chiacchiere… 
Che c’entra tutto questo con una destra liberale e conservatrice? Ad esempio con la Signora Thatcher?  Per la cronaca:  dentro quel che resta  della destra di origine neofascista (da Storace ad Alemanno), cui si rivolge Campi,  c'è ancora chi difende i generali argentini... 
Che c' entra tutto questo,  ripetiamo,  con la normale dialettica politica tra destra e sinistra? Nulla. E Max Weber sarebbe d’accordo con noi.
Perché Alessandro Campi, che, cotte politiche a parte,  resta un intellettuale di valore  (si visiti a Roma  la ricca  mostra su Machiavelli da lui curatahttp://www.oggiroma.it/eventi/mostre/niccolo-machiavelli-il-principe-e-il-suo-tempo-1513-2013/4950/  ) non torna a piegarsi sulle sudate carte?  Invece di aspirare a far  voltolare sassi per Alemanno, mescolando  improbabili identità  simboliche tra liberali e fascisti  con   ridicoli «richiami mitologici e ancestrali» dichiaratamente  nazionalfascisti?  

Carlo Gambescia 

Nessun commento:

Posta un commento