giovedì 11 aprile 2013

Il libro della settimana. Nicola Vacca,Mattanza dell’incanto, pref. di Gian Ruggero Manzoni, Marco Saya Edizioni, Milano 2013, pp. 84, euro 10,00 .




La libertà è un rischio da accettare o un peso da sopportare? Qual nesso può esistere tra decadenza e rifiuto della libertà? Oppure, al contrario, troppa libertà può essere alle radici del declino, tout court, di una società storica?
A tutto ciò pensavamo leggendo l’ultima raccolta di versi dell'amico Nicola Vacca:Mattanza dell’incanto (Marco Saya Edizionihttp://www.marcosayaedizioni.com/ ). Qual è la risposta  di Nicola,  poeta civile per eccellenza?   Parliamo di un poeta  mai servo di quell’ ideologia pseudio-civica dei professionisti del neo-illuminismo tecnocratico. Giustamente classificata da Gian Ruggero Manzoni, nella densa prefazione,   tra le  malattie del Novecento.
Mattanza dell’incanto - ma si legga  "della libertà" -   si articola in cinque sezioni:,  che per comodità espositiva facciamo precedere da un numero romano:  I. Appunti dal paese delle tenebre; II. Il legno storto delle cose; III. Precipitazioni del giudizio; IV. Davanti a un punto interrogativo; V. La parola è ferita.  La raccolta  va letta in chiave ascensionale, come  cammino  attraverso le rovine di una babelica  civiltà che a colpi di conformistico arpione uccide la libertà di  uomini rinchiusi nella weberiana gabbia di acciaio, alla stessa stregua  - crediamo -  dei  tonni imprigionati  nell'ultima parte della tonnara... Una civiltà in rovina,   distesa su acque paludose,  ricoperta di erbacce  e di  gelatinose piante  rampicanti,   che   si estende mostruosamente  in altezza.   La vetta non si scorge mai , tuttavia man mano che si procede nella  salita, pur tra  momenti di sconforto, tutto sembra apparire più chiaro. Le tenebre piano piano  si diradano e  il cuore delle  cose pur apparendo  più forte  degli stessi uomini  inizia a  pulsare  seguendo i   ritmi di una  libera  parola poetante: la sola  che   può   giudicare e  salvare,  nonostante   le   ferite sanguinanti.
Ma procediamo per gradi.
All’inizio della marcia «spaventa anche la libertà di tacere.» (L’inverno dentro, I, 23), perché «la libertà annega/ la deriva si apre sul baratro/ del grande zero della democrazia.» (Il grande nulla italiano, II, p. 33). Sembra quasi  prevalere la rassegnazione: « “Che ci vogliamo fare le cose vanno così/ purtroppo bisogna accontentarsi”./ Abbiamo rinunciato a tenere gli occhi aperti./ Ognuno preferisce la caduta/ in una solitudine feroce/ al coraggio di lottare per gli altri./ È più comodo non scomodarsi/ che essere una sola umanità. » (Una sola umanità, II p. 34). Tuttavia «qualcosa resta/ ma non basta a inventare la felicità. » (L’inferno del nostro scontento, II, 38). Dal momento che « il problema è che nessuno fermerà la mano del boia.» (Un paese barbaro, II, p. 41).
E allora? «Tra la gioia e il dolore/ tra il passato e il presente/ se immane sarà la perdita/ tanto più intensa sarà la speranza./ Intanto il male ha sempre fame.» (Animali morenti, II, 42). Ma se non c'è salvezza  che cosa resta  della libertà?  «Istanti/ di agonie e anarchie/ piccoli microcosmi di gioia e dolore./ La libertà di dissentire/ non è un gioco di società/ ma una regola della coscienza/ dell’uomo che non vuole cadere./ Incidenti di percorso/ sul cammino del pensiero unico/ non fermeranno la voce dissonante/ di chi pugnala il tempo/ per essere sempre un seme che germoglia.» (Essere tempo, III, 45).
Pertanto  «c’è un mondo da rifare/ spetta a noi/ trovare parole per il disgelo.» (C’è un mondo da rifare, III, 47). E in che modo? Prendendo la giusta misura della cose: «Quando guardiamo la realtà/ con la circospezione del cuore/ fiutiamo anche il significato/ del divenire che sa stare/ nelle appartenenze concrete. (…) Siamo dietro le finestre/ guardiamo il paesaggio/ in attesa che riveli la sua verità. /Dal vetro opaco si intuisce/ che in tutte le cose che siamo/ c’è il giusto e l’ingiusto. (Dal vetro opaco, IV, 49). Guai  però a perdere di vista l’altro, il diverso da noi: «Non aspettiamo che qualcuno bussi/ e rechiamoci verso l’ingresso/ una porta aperta annuncia novità. » (Una porta aperta IV, 50).
Insomma,  libertà, poesia e socialità sono un prezioso unicum di cui il poeta è portatore sano: «Adesso che vogliono toglierci la parola/ dobbiamo unire le nostre forze./ (…) noi poeti abbiamo il dovere/ di costruire una catena umana/ che sappia sferrare con l’intelligenza del cuore/ il colpo mortale a coloro/ che vogliono rinchiuderci /nel deserto delle emozioni. (…) Scrivere poesie significa/ continuare a sperare in una nuova primavera. ». (Continuiamo a sperare in una nuova primavera, IV, 51). Perché il poeta sa che  esistono due antiche certezze: la prima è che «l’amore è più forte del dolore/ nel tempo del male.» (L’amore nelle mani, IV, 53); la seconda è che «di tutto questo disordine/ siamo gli artefici che non si arrendono/ all'ultimo grido che spegne tutto.» (Nel deserto delle emozioni, IV, 56). Ciò significa che « si apre l’orizzonte/ se gli occhi/ hanno la libertà di vedere. /Cecità si riflettono/ nel cuore dei giorni amari. /Il controcanto della luce verrà/ quando davanti a un punto interrogativo/ smetteremo di avere paura. » (Davanti a un punto interrogativo, IV, 60).  Senza però sottovalutare,  magari con presunzione,  quel che  può nascondersi   dietro il «punto interrogativo». Occorre, dunque, equilibro: la libertà è sempre nel giusto mezzo: « Non chiudiamo le parole/ nel cerchio della ragione/ non lasciamole nemmeno/ alla deriva dei sentimenti. /Costruiamo con gli indizi/ che la vita offre/ quel grumo di senso/ che per forza sta nelle cose.» ( Così nasce la poesia, V, 64). E questo perché «il poeta sa sopravvivere/ alla sua stessa morte/ felice di stare nelle cose/ dove lo preserva il verso/ che traduce la parola in eternità. »(Questo stare nelle cose, V, 65). Senza  mai piegarsi al conformismo, se poeta vero: « Vogliamo essere le note stonate/ fuori da qualsiasi coro/ per dire basta con il veleno puro/ della rabbia e della poesia/ alla retorica di chi ci sta rubando/ il viaggio di esseri umani venuti al mondo/ soltanto per condividere la bellezza. » (Veleno puro, V, 68).  Anche  perché «incalza la parola che interroga/ del poeta che attraversa il vero/ nel vento e nella sabbia/ di un deserto di anime.» (Incalza la parola che interroga, V, 71). Del resto,  «nella bellezza della conversazione/ il gioco del conoscersi non finisce mai. » (La bellezza della conversazione, V, 74).

Tuttavia, vicino alla vetta, il poeta sembra di nuovo  cedere allo sconforto, che non è mai  mancanza di coraggio, ma pura  conseguenza   dell' umano  riflettere  sul  legno storto delle cose…  «Il dramma è che non siamo noi a decidere/ ma quella combinazione di circostanze/ che può salvarci o condannarci. » (Crudeltà dell’imprevisto, V, 75). Una situazione instabile  in cui «far finta di essere liberi è/ l’ illusione che annuncia il naufragio.» (L’illusione, V, 76).  Ma che resta tale  solo per poco.  Nicola Vacca   sa  che  la   poesia e la  libertà - "l'incanto" -  hanno la stessa preziosa  radice:  l' amore.  Solo l'immedesimazione nell'altro potrà salvarci: «A cosa serve la bellezza delle parole/se non trova una casa /nel cuore e nella mente. / A cosa serve l’amore /se l’egoismo uccide la sua libertà. /A cosa serve la vita/ se alla conoscenza si preferisce/ la presunzione di bastare a se stessi.» (Sono state tagliate le radici, V, 77).
La libertà per Nicola Vacca è un ossimoro: resta a un tempo, e per pochi,  rischio da affrontare  e peso da evitare per molti.  Non c’è risposta assoluta:  può culminare nell’anarchia della decadenza,  ma senza libertà non esiste salvezza. Di qui, la necessità di accettare il rischio e proseguire nella scalata, fino alla vetta con il passo fermo della parola poetante capace di scuotere le coscienze e  disvelare nuovo cielo e nuova terra. 

Carlo Gambescia

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