martedì 2 aprile 2013

Anche  la  società  
teme  di ammalarsi  e morire ?




La società, come entità collettiva,  percepisce il pericolo?  “Sente” il rischio di  non  poter sopravvivere  a qualche improvvisa "malattia sociale".  ? Insomma, le società,  anche se storicamente diverse,  avvertono quel senso di fine imminente che sembra talvolta sconvolgere e opprimere la vita di uomini ai quali  viene scoperta (e comunicata) una grave malattia?
Di regola, ciò che vale per il singolo individuo può non valere per un entità collettiva. Il medico, pur ammettendo  un margine di errore, basa la sua opera su principi scientifici e reazioni abbastanza prevedibili. Perciò  il malato,  fiducioso negli stessi principi, si rimette quasi sempre docilmente alle cure mediche.
Per contro, il politico, che agisce in modo empirico, oltre a non disporre di “farmaci” sociali di sicuro effetto (almeno per alcune “malattie"), non può mai prevedere quali saranno le reazioni alla “cura”, non di un individuo, ma dell'intero  “corpo sociale. Parliamo di un numero imprecisato di persone, le quali  spesso, singolarmente,  diffidano delle capacità  del medico-politico. Di qui, come dicevamo,  le reazioni più diverse e imprevedibili  sul piano collettivo.
Perciò la società, come insieme, non  percepisce  mai  il pericolo  di  morte imminente.  Ovviamente, gli storici, “dopo” che una società  è  scomparsa,  scrivono  di segnali non visti per tempo, eccetera. Ma soltanto “dopo”.

Certo, come la storia conferma, possono esserci figure di “profeti” (in epoca moderna, anche sotto forma di scienziati e studiosi) capaci “individualmente” di “sentire” il pericolo. E magari di comunicarlo agli altri. Ma in genere sono inascoltati, fraintesi, strumentalizzati. Anche perché - ecco la differenza fondamentale con la fisiologia individuale - la società  è sempre   pensata dagli uomini che la compongono  come eterna e indistruttibile.  Gli individui,  come esseri collettivi  che si autoperpetuano generazionalmente, non credono  nella  morte dell' "involucro sociale" che li  racchiude e protegge. La società, dal punto di vista esistenziale, conosce e declina  solo tre tempi verbali: passato, presente, futuro, e poi ancora passato, presente, futuro. E così via. Per rispolverare il linguaggio heideggeriano, l’esserci sociale ( e non dell'individuo)  è un essere per  la vita e non per la morte. Oppure,  per dirla con  Giorgio Gaber (si  parva licet componere magnis),  la società  "fa sempre finta di essere sana". 

Carlo Gambescia

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