giovedì 6 settembre 2012


 I libri della settimana: Gordiano Lupi, Storia del cinema horror italiano. Volume 3 – Joe D’Amato, Pupi Avati, Ruggero Deodato, Umberto Lenzi e il cannibal movie, Edizioni Il Foglio 2012, pp. 234, Euro 15,00; Matteo Mancini, Spaghetti Western. Volume 1 – L’alba e il primo splendore del genere (anni ’63 - ’66), Edizioni Il Foglio 2012, pp. 416, Euro 18,00. 

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All’editore Gordiano Lupi piace il cinema.  E proprio quello che, ingiustamente,  viene chiamato di Serie B.  Basta sfogliare il catalogo delle piombinesi Edizioni Il Foglio, di cui è il patron,  per viaggiare con l’immaginazione tra Zombi all’amatriciana, robusti vampiri della Val Trompia,  tettone platinate con spiccato accento siculo, poliziotti di Testaccio nati a L'Avana.  

In realtà, Lupi è una specie di Zeman dell’editoria, anche se molto più giovane e colto. Pubblica libri che ti fanno divertire e gioca all' attacco  come il boemo.  E pubblica “a più non posso”, riabilitando registi, sceneggiatori, attori, attrici, altrimenti malgiudicati e dimenticati dalla storia del cinema di Serie A (?). Oltre ovviamente a editare tostissimi saggi di letteratura, cultura, politica e varia umanità, nonché ottimi romanzi, con straordinarie aperture verso una  cultura cubana che finalmente sembra avere messo le ali (della libertà), per volare  via da un Fidel Castro, che  ormai  rischia di  assomigliare al protagonista di un cannibal movie.
A questo proposito -  e non ci scusiamo con Castro... -   va segnalata l’ultima fatica del Lupi-Zeman editore e scrittore (ma, in passato, anche calciatore e arbitro): Storia del cinema horror italiano.  Joe D’Amato, Pupi Avati, Ruggero Deodato, Umberto Lenzi e il cannibal movie, (il terzo dei sei previsti), dove, aprendolo, ci siamo subito  buttati a corpo morto  su Pupi Avati. Di cui ricordavamo un avvicente film horror: Zeder (1981), con Gabriele Lavia, bravissimo protagonista. E, infatti, colpito e affondato. Ma lasciamo la parola a Lupi: «Avati crea un originale gotico italiano ambientato in epoca contemporanea e scava nella paura prodotta da antiche credenze popolari […], e gira una convincente versione personale del mito degli zombi […]. Il film è originale anche per l’ambientazione sulla riviera romagnola, in una colonia marina location insolita per un film horror». E giustamente si  sottolinea  la scena più macabra del film: «la sequenza della resurrezione del prete». Chi scrive, mai dimenticherà,  l'inquietante ghigno dipinto sul volto del morto vivente in clergyman, che con feroce agilità scivola via dal sepolcro, mentre una telecamera lo sta riprendendo… Ma quel che colpisce del capitolo-Pupi Avati è la particolarissima  rilettura  della sua opera: i film di successo, quelli del  cantore introspettivo del piccole cose, sono considerati quasi incidenti di percorso. Mentre  vengono valorizzati, e giustamente,  i film più in sintonia, citiamo alla rinfusa, con la vena ctonica  del regista bolognese: la sua opera prima Balsamus, l’uomo di Satana (1968),  La casa dalle finestre che ridono (1976), Tutti i defunti tranne i morti (1977), Zeder,di cui abbiamo detto, L’amico d’infanzia (1994), L’arcano incantatore (1996). Approccio, "a rovescio", che potrebbe essere la griglia per una rilettura, non conformista, dell’ intera opera cinematografica di Pupi Avati. Insomma, come dicono gli accademici di storia del cinema:  per una... monografia. Ovviamente, non passano neppure inosservati i corposi ritratti di Joe D’Amato, al secolo Aristide Massaccesi, un Ed Wood italiano, nonché del geniale Ruggero Deodato, passato, per dire, da Cannibal Olocaust (1980) a Incantesimo 8 (2008), fiction televisiva di successo. E in che modo?  Quasi miracoloso:  Deodato sembra  attraversare i diversi  generi  con lo stesso scioltissimo passo  con cui il Prof. Dott. Guido Tersilli-Alberto Sordi, primario di Villa Celeste, faceva il giro mattiniero dei malati.
Proviene sempre, per così dire, dalla scuderia Lupi, Matteo Mancini, laurea in legge e, altra laurea, anzi un vero e proprio dottorato in cinefilia (si dice così?) sul campo. Autore di Spaghetti Western. L’alba e il primo splendore del genere (anni 1963-1968), un ponderoso volume, il primo di una trilogia in argomento il cui obiettivo è « di avvicinare il pubblico giovane a un genere che al giorno d’oggi (insieme al peplum e al c.d. macaroni combat ) è il più sconosciuto e sottovalutato dalla cinematografia italiana». E ingiustamente, perché, come si legge, «dal 1964 al 1978 in Italia furono realizzati quasi seicento film western». E qual è il filo conduttore di un' impresa così nobile e difficile? Cosa resta   impresso  nella zucca del lettore?   Presto detto: oltre alla accuratissima ricostruzione (tra l’altro ottima la scelta di inserire l' Indice finale dei film trattati),  si intuisce che dietro  lo spaghetti western c’è la progressiva americanizzazione europea (e italiana) dei costumi culturali  e sociali. Ma, attenzione, come spiega Mancini, non in chiave di una banale imitazione di modellli, ma di  creativa  interazione, per dirla in sociologhese, tra cultura americana della frontiera e cultura italiana - siamo a metà degli  anni Sessanta - di una protesta sociale e politica via via sempre più consistente. Insomma,  lo spaghetti western, anche se può sembrare paradossale, permetteva di dire a registi e sceneggiatori, si pensi ai film rivoluzionari di ambientazione maccheronico-messicana, cose che non si potevano dire nei film di Serie A.   Cosicché  - e sarebbe un'ipotesi da esplorare -  con il forte consolidamento  del cinema politicamente impegnato  degli anni Settanta, post-1968 (dei Rosi, dei Maselli, e così via), che diceva le cose fuori dai denti, lo spaghetti western  diverrà inutile e perciò  costretto al  letargo. E qui si pensi, ad esempio a Lizzani, il quale, probabilmente, anche per «contropartita», come scrive Mancini, aveva girato negli anni Sessanta due western; uno dei quali però Requiescant (1966), addirittura con Pier Paolo Pasolini come guest star letteraria.  Lizzani  girò  quei  film  solo per motivi alimentari? Su questi temi si veda il bel film documentario di  Gianfranco Pannone, L'America a Roma, (1998), dove parlano  i protagonisti dell' epoca, a partire dagli  spericolati stuntman promossi attori sul campo . Solo per fare alcuni nomi:  Guglielmo Spoletini (William Bogart), Gino Marturano (Jin Martin), Remo Capitani (Ray O'Connors). Giovanni Cianfriglia (Ken Wood).
Insomma, sarebbe interessante indagare, nuovamente, nome per nome, la biografia politica e l’itinerario cinematografico di sceneggiatori, registi e anche  attori dello spaghetti western (Spoletini, ad esempio, era un acceso militante comunista), per scoprirne, in particolare,  il  destino politico:   un lavorare per frammenti esistenziali, mettendo insieme, Quentin Tarantino e Roland Barthes. Detto altrimenti, e giriamo al bravo Matteo Mancini una domanda, solo apparentemente  surreale: che lo Spaghetti Western  sia  culturalmente alle origini del cinema  impegnato degli Anni di Piombo? 
Carlo Gambescia

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