mercoledì 23 maggio 2012

Grazie Teodoro! Perché dovremmo tirarti per la giacchetta, come scrivi nella chiusa del tuo post?   Anzi,    ringraziamo pubblicamente l’amico Teodoro Klitsche de la Grange (*) per il magistrale articolo.   Perché ci spiega come in Italia, rendendo costoso e lento l’apparato giudiziario, si sia  in realtà costruita una  giustizia di classe.  E per giunta senza che se ne accorgesse, come si legge,   « chi classe ed eguaglianza le ha sempre in bocca »...  Detto altrimenti:    gli apprendisti stregoni della sinistra, da sempre pronti a invocare le due parole magiche.  Buona lettura. (C.G.)



Giustizia di classe
di Teodoro Klitsche de la Grange




A leggere quasi tutti i libri di giuristi che parlino ad un tempo di Stato e di diritto, si può notare che, secondo gli autori, funzione essenziale dello Stato sia di fare osservare il diritto, e per questo di istituire Tribunali. Si va dal “ne cives ad arma ruant” dei romani alla Diké di Hauriou: dare, organizzare, obbligare a servirsi della giustizia è una necessità ineludibile per evitare che i cittadini (o i sudditi) se la facciano da soli, in un bricolage giudiziario che va dalla faida al duello (e così via). A conferma di ciò citiamo quel che ne pensava un mostro sacro del diritto pubblico (e della politica) come Vittorio Emanuele Orlando “Abbiamo stabilito come fine essenziale dello Stato l’attuazione, in senso larghissimo, del Diritto nella convivenza sociale... quella coazione esterna, senza cui non esiste alcuna norma giuridica, non può esistere che in seno allo Stato”.
Si può osservare che i giuristi in genere enfatizzano questa funzione: accanto e sopra la quale c’è quella, essenzialmente politica (e non giuridica) della protezione della comunità (in – e con – la pace o la guerra), di cui quella “giuridica” è una conseguenza, variamente (anche se costantemente) disciplinata.
Questo fino a qualche lustro fa: onde la poco efficiente giustizia italiana, anche se tale, costava poco (e spesso niente), proprio perché l’accesso alla giustizia “funzione essenziale e necessaria” non poteva essere limitato da oneri pesanti.
Da allora qualcuno al Ministero della Giustizia fece una bella pensata: e se per risolvere il problema (principale) della giustizia (civile e amministrativa) e cioè l’eccessivo numero di cause rispetto alle decisioni delle medesime, non aumentassimo queste ultime, ma riducessimo le prime? E quale miglior sistema (a parte conciliazioni, mediazioni, arbitrati, perenzioni) che creare una giustizia sempre più costosa, di guisa da scoraggiare le liti, specie dei meno abbienti (alla faccia del principio d’eguaglianza)?
Detto, fatto: fu inventato il “contributo unificato” un meccanismo che, a seconda del “valore” e del tipo della lite e dell’ufficio giudiziario, dev’essere pagato dal litigante che inizia il processo.
La pensata ha avuto un crescente successo:  da qualche anno è tutto un aumentare il contributo unificato (e gli obbligati a questa tassa): quanto ai contribuenti (anche i litiganti che provino a proporre una domanda in proprio in causa iniziata da altri) alla quantità delle doglianze (l’estensione ai “motivi aggiunti”) all’abolizione di “fasce” esenti (il processo del lavoro), al tipo di processi. Ad esempio per far iscrivere un ricorso in materia di gare pubbliche, Pantalone esige ben 4.000,00 euro sull’unghia. E l’ultimo aumento (del 50%) è di quest’inverno (il precedente dell’anno scorso).
Il tutto poi, mentre aumentano esponenzialmente le somme che Pantalone paga per la durata eccessiva dei processi; malgrado anche qui, qualche solerte pensatore abbia pensato prudentemente di rallentare al massimo il pagamento degli indennizzi, rendendo impignorabili quasi tutte le entrate del Ministero della Giustizia, cioè il maggior debitore di tali somme. E così tra quattrini incassati immediatamente e risarcimenti pagati alle calende greche, la macchina ansimante della giustizia procede rendendo servizi sempre meno appetibili a costi obbligatoriamente crescenti (per gli utenti-contribuenti).
Questo pone un paio di riflessioni di carattere generale.
La prima: oltre un secolo fa i giuristi tedeschi paragonavano il loro sistema giudiziario con quello inglese, notando che il primo era facilmente accessibile a tutti ed efficiente, mentre quello inglese costoso e lento. Il che la rendeva una “giustizia di classe” a disposizione solo di ricchi e potenti. È curioso che durante e dopo tutto questo tassare nessuno (specie chi classe ed eguaglianza le ha sempre in bocca) si sia accorto che si stava (e sta) costruendo anche in Italia una “giustizia di classe” ad accesso differenziato: agevole per chi ha i soldi e può aspettare e molto meno per chi ne ha pochi ed ha fretta.
La seconda: imperversa lo strabismo economico, non tanto quello della public choice o alla Puviani o alla Pareto, cioè del calcolo economico dei costi della politica e della burocrazia, ma un altro, più terra terra, che vorrebbe misurare secondo parametri economici tutti i servizi, indipendentemente dal loro carattere e funzione. Mi spiego: se lo Stato decide di fare una caserma dei carabinieri, è del tutto corretto che il costo dell’edificio sia valutato in base al costo in genere delle costruzioni; ma se si pretende di misurare il “rendimento” della caserma, il calcolo diventa di fatto estremamente difficile, altamente opinabile, e al limite impossibile. Perché se si vuole valutarlo in base al numero delle pratiche “sbrigate” (cioè di indagini su denunzie, querele, rapporti, referti), il parametro è, a dir poco, parziale. Questo perché l’effetto della presenza della caserma è, di solito, di fare ridurre i reati (e le conseguenti denunzie), per l’intensificarsi della prevenzione e il timore di una repressione più pronta ed efficace. Tutt’al contrario di un criterio “a pezzi lavorati” è la riduzione di questi che può essere l’indice più realistico del risultato ottenuto. Cioè la tutela del bene-sicurezza.
E si può sostenere, al contrario di quanto molti pensino, che la riduzione del ricorso alla giustizia potrebbe derivare non da certi espedienti da Arpagone, ma dal miglioramento dell’efficienza e dell’accessibilità della stessa: perché una decisione, pronta ed equa, su un diritto è il maggior deterrente per chi ha torto.
E si potrebbe andare avanti ancora, ma il direttore già mi tira per la giacchetta, e rimando i lettori, per altre riflessioni, ad un prossimo articolo.

Teodoro Klitsche de la Grange



Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/   ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).

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