martedì 24 aprile 2012

Il libro della settimana: Renzo De Felice, Fascismo, pref. di Sergio Romano, Intr. e postfaz. di Francesco Perfetti, Le Lettere 2012, pp. 118. 


Non vi è mai accaduto, mentre siete seduti in poltrona o alla scrivania (oggi desk…), di provare l’irresistibile voglia di abbracciare l’ autore, il curatore, il traduttore, eccetera, del libro che state leggendo? A noi è capitato scorrendo la prefazione di Sergio Romano a Renzo De Felice, Fascismo: aureo volumetto, riproposto dalle fiorentine Le Lettere, che consigliamo di leggere a chiunque voglia avvicinarsi  alla appassionante  e  scientificamente esemplare interpretazione defeliciana del fascismo. Tra l'altro,  mai digerita dalla storiografia azionista e marxista.  Come  per l'appunto   rileva Sergio Romano, scatenando la nostra "voglia di tenerezza": «In una prima fase gli intellettuali progressisti e comunisti furono insospettiti dal suo metodo e dalla minuziosità delle sue ricerche. Per gli usi che la sinistra intendeva farne il fascismo doveva restare un monolite liscio e uniforme, perfettamente orribile e deprecabile (…). Dopo qualche anno, per la verità, si accorsero che il lavoro di De Felice non poteva essere liquidato con qualche battuta polemica. Nessuno storico quale che fosse la sua matrice ideologica, poteva ignorare la qualità, la serietà, la precisione, l’originalità della biografia di Mussolini (…). Il risultato fu una sorta di schizofrenia. (…) Assistemmo così alla singolare anomalia di uno studioso che pubblicava libri presso un editore di sinistra (Einaudi), ma veniva sistematicamente attaccato sui giornali dagli autori della casa editrice».  Fotografia  storiografica perfetta. Ma ecco i fuochi d'artificio  finali: «Con tutte le differenze che corrono fra un regime autoritario e un sistema politico democratico, potrebbe sostenersi che De Felice fu trattato dall’intelligencija antifascista come Croce era stato trattato dal sistema culturale fascista. Non si poteva impedirgli di scrivere e di pubblicare; ma bisognava impedirgli, per quanto possibile, di concorrere alla formazione della pubblica opinione» (pp. 6-7).  Insomma, come sintetizzare meglio di così, per dirla con Noventa e Del Noce, il fascismo degli antifascisti?  Un approccio  fazioso  cui  la storiografia pura di De Felice, scomparso nel 1996,  si oppose frontalmente,  scatenando, per reazione,  l' ira degli antifascisti  e,  a dire il vero, anche quella dei neofascisti, poco teneri verso lo storico che osava  infrangere  incapacitanti mitologie romantiche.
Ma c’è un altro punto degno di rilevo, anzi di “abbraccio” . E, questa volta,  verso Francesco Perfetti, curatore dell’ottima iniziativa editoriale,  quando scrive: «In particolare merita di essere ricordata la conclusione del saggio, laddove lo studioso fa notare come le radici storiche del fascismo non possano essere ricercate soltanto nella tradizione politica e culturale della destra, ma debbano essere rintracciate, anche e assai spesso, in un’altra tradizione, quella di un certo radicalismo di sinistra che nacque e si sviluppò con la Rivoluzione francese. Si tratta di un punto fondamentale - che consente di capire come e perché esistano profonde differenze tra fascismo e regimi autoritari e conservatori classici – sul quale De Felice ha più volte richiamato l’attenzione» (p. 20). Il  radicalismo giacobino è una questione fondamentale, perché   proietta sul fascismo  la  luce spettrale del  modernismo totalitario. Argomento che,  abbracciando anche il comunismo,   rinvia  a quel museo  degli errori-orrori di  famiglia,  inviso   agli storici di  sinistra,  notoriamente dotati di memoria corta, soprattutto verso le proprie pecore  nere, anzi rosse...  Anche perché - cosa di cui si parla poco - il giovane De Felice fu attento studioso di quel   misticismo rivoluzionario giacobino  giunto  in Italia  con  le   armate  napoleoniche.   Insomma, grazie allo studio dei giacobini italiani e alla successiva  lettura delle opere di Talmon e Mosse,    De Felice  si costruì   una sontuosa  "cassetta degli attrezzi". O  detto altrimenti: un apparato concettuale  che gli avrebbe permesso di scandagliare  i più nascosti e inesplorati  fondali del fascismo.
E ora un po’ di “filologia” editoriale: Fascismo, racchiude nell'ordine:  lo studio dal titolo omonimo scritto per l’Enciclopedia del Novecento, uscito nel 1977; un sintetico testo, su "Fascismo e fascismi", elaborato nel 1965-66 per un’ enciclopedia storico-politica, pubblicata in Germania fra il 1966 e il 1972, saggio dal quale De Felice, giustamente, ritirò la firma a causa dei troppi tagli e rimaneggiamenti subiti ( nella Postfazione Perfetti ricostruisce la vicenda in tutti i  suoi,  poco edificanti,  particolari ); infine, una vera chicca: il resoconto di un dibattito romano a tre voci sulla natura del fascismo: anno di grazia 1975. E che voci! Ovviamente De Felice, Anthony James Gregor, teorizzatore del fascismo, anzi dei fascismi come dittature rivolte a favorire lo sviluppo economico rapido (developmental dictatorship), Augusto Del Noce, autore della distinzione -   interna a ciò che egli  definiva  epoca della secolarizzazione -   tra fase sacrale del totalitarismo (fascismo, nazismo e comunismo) e fase profana (l’odierna società opulenta). Come ricorda Perfetti, organizzatore dell’incontro, « si era nel pieno della polemiche innescate dalla pubblicazione della breve Intervista sul Fascismo (…) a cura di Michael Ledeen» (p. 114). Non anticipiamo i contenuti del dibattito. Lasciamo al lettore il piacere di volare alla stessa altezza dei magnifici tre… Accenniamo solo ad alcuni temi defeliciani  discussi in quella sede  dal punto di vista sociologico (Gregor) e filosofico-culturale (Del Noce), cui De Felice, rispose  da par suo: ruolo nel fascismo  dei ceti medi emergenti (quindi un movimento  non composti di soli "spostati..."); distinzione tra fascismo regime e fascismo movimento; differenze tra fascismo e nazismo, eredità rivoluzionaria nel fascismo (il giacobinismo, cui si accennava prima…), consenso di massa al regime dagli anni Trenta fino ai primi anni guerra, e altro ancora. Come esempio del metodo defeliciano, si legga la sua  finissima distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime: «Il fascismo movimento è l’autoproiezione di ciò che da varie e diverse parti si sarebbe voluto che il fascismo fosse; ed è  una realtà che cambia continuamente, che non si lascia racchiudere negli schemi di una definizione precisa. È un agglomerato di elementi culturali (consapevoli e inconsapevoli) e psicologici che sono in parte quelli del fascismo intransigente, quello pre-marcia su Roma, ed in parte sono qualcosa di nuovo e diverso, che vuole costituire l’autorappresentazione del fascismo proiettato nel futuro al di là, perciò, di condizionamenti, di paure, della vita di Mussolini. C’è poi il fascismo regime , la realizzazione politica del movimento che tiene conto della realtà sociopolitica con i suoi problemi e con le sue difficoltà. Esso è la politica di Mussolini, il risultato di una politica che tende a fare del fatto fascismo la sovrastruttura di un potere personale, finisce per edificare una costruzione in cui non sempre e non tutto il movimento si riconosce e si ritrova» (p. 94).
Quanto a Mussolini, resta particolarmente incisivo il  giudizio che qui riportiamo,   dal quale si evince, nonostante il consenso, tutta la debolezza del regime mussoliniano. Il passo è piuttosto lungo, ma merita. Scrive De Felice, partendo dagli anni successivi alla crisi del 1924-1925: « Appena poté, Mussolini si liberò degli “intransigenti” (che avrebbero voluto una vera fascistizzazione dello Stato e della società italiana e un rilancio del partito e della milizia come effettivi strumenti e mediatori del potere) e accentrò tutti i poteri nello Stato, senza peraltro riuscire a renderlo effettivamente fascista. Privo di una classe dirigente fascista all’altezza della situazione e di un partito “rivoluzionario”, il condizionamento delle forze conservatrici fu decisivo. Lo Stato si identificò formalmente col fascismo e questo col suo capo, però Mussolini rimase in pratica prigioniero di uno Stato che era sostanzialmente il vecchio Stato conservatore e che - nonostante l’assetto corporativista imposto dall’alto e certi tentativi di espandere l’iniziativa pubblica e il controllo statale - non solo non era in grado di incidere sulla strutture sociali ma si uniformava alla dinamica sociale tradizionale che continuava (sia pure con qualche frizione) a evolversi nella stessa direzione. Sicché il ruolo di Mussolini si ridusse a quello di un mediatore all’interno di un sistema nel quale tendevano a risorgere tutti i vecchi conflitti senza che il fascismo riuscisse a comporli, ma, nel migliore dei casi, solo a comprimerli a vantaggio delle forze economiche più conservatrici, quindi, ad esasperarli. Di un mediatore a cui - per giustificare il suo ruolo - non rimase altra strada fuori che quella - tipica del nazionalismo - dell’espansione nazionalistica e, quindi della guerra intesa come giustificazione dell’immobilismo sociale in atto e come premessa necessaria per un futuro benessere da realizzare non attraverso la risoluzione dei conflitti sociali interni ma a danno di altri popoli» (p. 72).
Tutti sappiamo come andò a finire: un bagno di sangue, dal quale gli italiani,  moralmente, non si sono  più ripresi. Il che però non significa che il fascismo non possa  essere studiato con la massima onestà scientifica.  In sintesi, la grande lezione di Renzo De Felice è tutta qui:  una storiografia libera,  né fascista né antifascista, per uomini liberi.   

 Carlo Gambescia 

Nessun commento:

Posta un commento