mercoledì 21 marzo 2012

Riforme, non basta la parola



Riforme sì, riforme no… sembra il ritornello della “Terra dei Cachi” di Elio e le storie tese. Serietà. Nel lessico politico non solo italiano, diciamo dal 1945, il termine riforma ha subito un notevole cambiamento. Quale? Se fino agli anni Settanta l’espressione descriveva il riformismo come insieme di modifiche sociali al sistema capitalistico per “addolcirlo”, dagli anni Novanta in poi ha invece assunto un significato ristretto: quello di un complesso di riforme economiche in grado di migliorare, senza alcun riguardo alla questione sociale, la competitività del sistema capitalistico. Insomma, l’esatto contrario del riformismo welfarista. Perciò, quando oggi, Confindustria invoca le “riforme”, si riferisce, semplificando, alla competitività, punto. Per contro, chiunque sia rimasto legato al significato sociale del termine viene subito liquidato come conservatore. Alla base della “trasmutazione lessicale” - per usare un parolone - c’è sicuramente il cambiamento dei rapporti di forza mondiali: l’Urss non esiste più, e con essa il pericolo rivoluzionario. Di conseguenza, negli ambienti economici che contano, da un pezzo non si ritiene più necessario «andare verso il popolo». Si pensi, ad esempio, a un manager come Marchionne.
Inoltre, va considerato anche un altro fattore: quello dell’ascesa, negli anni Ottanta della cultura dell’individualismo economico di massa. Una cultura postmoderna del produci e divertiti, di matrice nordamericana, che ha contribuito a trasformare il concetto stesso di solidarietà e Stato sociale. In che modo? Presto detto, imponendo due idee.
La prima, che nessun pasto può essere gratis (l’ espressione risale a Milton Friedman, padreterno liberale del monetarismo); la seconda, che la solidarietà debba viaggiare proprio come negli Usa, attraverso canali privati e soltanto sotto forma di carità e beneficenza.Come tornare alla cultura delle riforme vere, quelle sociali? Innanzitutto, occorre recuperare una dote oggi rara: la preveggenza politica. Per capirne il significato, lasciamo la parola a un riformista liberale (altro che Friedman...), di origine controllata, come Camillo Benso, Conte di Cavour, anno di grazia 1850: «Vedete signori come le riforme compiute a tempo, invece d’indebolire l’autorità, la rafforzano; invece di crescere la forza dello spirito rivoluzionario lo riducono all’impotenza». Cavour parlava al Parlamento subalpino evidenziando la necessità di un ciclo di riforme, rivolte a modernizzare il Piemonte (e in seguito l’Italia), scongiurando il pericolo rivoluzionario, all’epoca, repubblicano e socialista.
Che serva però, anche oggi, un avversario ideologico esterno? Un nemico, capace, issando la bandiera di un sistema politico, economico e sociale alternativo, di spaventare il capitalismo e costringerlo a intraprendere nuovamente il cammino delle riforme sociali ? In realtà, almeno per ora, non possono essere considerati rivali ideologici la Cina capitalista e autoritaria, né un Islam meno industrializzato, ma altrettanto autoritario. Dal momento che questi mondi, a differenza del mito sovietico e marxista, sono incapaci di esercitare qualsiasi fascino sulle masse occidentali. Anzi, per contrasto, Cina e Islam, possono spingere gli occidentali, soprattutto quelli « piccoli piccoli» (nel senso dello scrittore Cerami), a farsi fieramente ancora più individualisti. Manca, insomma, quel forte appeal sociale esercitato dall’Urss e dal marxismo sugli intellettuali europei e americani. Capace, in passato, per reazione (la paura del “contagio” di massa), di tradursi politicamente in Occidente - certo, obtorto collo - in buona cultura welfarista delle riforme sociali, frutto in parte di un intelligente liberalismo politico, non mercatista, in grado di intuire la pericolosità (per il capitalismo stesso) di tirare troppo la corda. Tutto qui.
C'è però una controindicazione politica, non da poco. Secondo Tocqueville, altro liberale di origine controllata, i cui occhi erano però rivolti al repentino crollo della timida (in senso riformista) monarchia francese; caduta che nell'immediato spianò la strada alla demagogia politica e sociale dei giacobini: «Il regime che una rivoluzione distrugge è quasi sempre migliore di quello che lo aveva immediatamente preceduto, e l’esperienza insegna che il momento più pericoloso per un cattivo governo è quello in cui comincia a riformarsi».
Ciò significa che le riforme, soprattutto se balbettanti, possono accrescere le aspettative della gente, o comunque provocare scontento tra i vari gruppi sociali in conflitto. E, per contro, alimentare negli oppositori la politica del "tanto peggio tanto meglio". Che, di regola, dopo la caduta del regime, si trasforma inevitabilmente nel "si stava meglio quando si stava peggio". Ovviamente, parliamo delle riforme vere, quelle che servono a evitare le rivoluzioni...

Carlo Gambescia

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