lunedì 27 febbraio 2012




Che c'entra  Hannah Arendt con la 
flessibilità?




Chiediamo perdono in anticipo al lettore, perché nel post di oggi si parlerà di flessibilità solo nella chiusa. Il lungo “cappello” è propedeutico, e in termini di teoria politica, a tre interrogativi finali sulla questione della flessibilità di cui tanto si parla in Italia.

Partiamo da una definizione di politica che risale alla Arendt: «La politica (…) organizza a priori gli assolutamente diversi in vista dell’uguaglianza relativa, e per distinguerli dai relativamente diversi» (Che cos’è la politica?, Edizioni di Comunità, Milano 2001, p. 8).
La parola chiave è « organizza». Non ci interessa qui approfondire il significato del passo nel contesto evolutivo del percorso teorico arendtiano, bensì porre in primo piano, come anche per la Arendt, attentissima alla conservazione della libertà-spontaneità del singolo, la politica sia “organizzazione”. E l’organizzazione, come è noto, implica sempre una decisione limitativa della libertà. Ovviamente, la decisione, in quanto tale, può provenire sia dall’alto (la mano visibile delle leggi, e della politica che le "produce"), sia dal basso (la mano invisibile delle pratiche sociali, inclusive delle economiche). La prima forma di organizzazione è politica perché basata sulla macrodecisione, per l'appunto politica (concernente la sfera pubblica), presa storicamente sempre da pochi, pochissimi, o addirittura uno solo; la seconda è sociale perché fondata su un numero incalcolabile di microdecisioni riguardanti la sfera degli interessi individuali. L’organizzazione politica rinvia alla decisione e alla questione di chi prende la decisione e in favore di chi. Migliore sarà quell’organizzazione politica, dove la decisione viene presa in maniera tale da facilitare la convivenza politica, permettendo che i pochi che decidono, riflettano il volere dei molti, ma non di tutti, purtroppo. Dal momento che da sempre ogni decisione scontenta gli uni e accontenta gli altri. Anche perché si tratta - impresa difficile - di far convivere insieme, come scrive la Arendt, assolutamente diversi e relativamente diversi: E come misurare l'immisurabile? Il relativo con l'assoluto, e viceversa? Se accordo vi può essere, sulla base di un libero convincimento, quel convincimento sarà di natura storica. E quindi temporaneo. Per ora, il sistema della democrazia rappresentativa è ritenuto il migliore fra i diversi sistemi di "misurazione". Del resto - ed è bene ribadirlo - la "giustizia" non è di questo mondo, soprattutto quella assoluta.
C’è però una corrente di pensiero che rifiuta il ruolo organizzativo della politica, per puntare su quello organizzativo di un sociale capace di autoriprodursi. Detto altrimenti: un pensiero che confida nella mano invisibile delle pratiche sociali (inclusive, come detto, delle economiche). Tuttavia - è una constatazione - la tesi dell’auto-organizzazione è impolitica, perché svaluta il ruolo delle leggi e della politica che le produce, nonché talvolta antipolitica, soprattutto quando propone di sostituire la spontaneità dell'agire "microdecisionale" sociale dei singoli alla "macrodecisione" politica. Resta ovviamente un’area di mediazione: quella di una politica, capace di tradurre in leggi le pratiche sociali di maggioranza, seppure in termini storicamente relativi e imperfetti.
In base a quel che abbiamo fin qui detto, poniamo agli amici lettori tre questioni: la flessibilità, come principio organizzativo, è una pratica sociale pura, auto-organizzativa, che quindi non ha bisogno di alcuna mediazione? Oppure rinvia alla necessaria mediazione politica? O, infine, si tratta di qualcosa che non esiste socialmente, e che si vuole introdurre dall’alto attraverso la pura decisione politica?



Carlo Gambescia

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