sabato 15 ottobre 2011

Pressoché certi del prossimo "balletto" politico sulle responsabilità dei gravi incidenti di oggi pomeriggio, ci permettiamo di riproporre un nostro post di qualche tempo fa, nella speranza che possa offrire alcuni elementi di riflessione generale. (C.G.)



Roma, Piazza San Giovanni, sabato 15 ottobre, ore 18.


Sociologia della violenza



.Proprio non ci siamo… Certe tesi, di nuovo in circolazione, rivolte a giustificare l’uso della violenza “operaia” contro quella “sistemica”, sono francamente preoccupanti. Il che ci spinge a proporre qualche riflessione sociologica sulla questione del rapporto tra violenza e politica. Un tema più volte discussso sul nostro Blog. Ma, come si dice, Repetita juvant…

Che cos’è la violenza?
In primo luogo, la violenza è un reale fattore sociale e storico. E di che si tratta? La violenza consiste nel rimuovere con la forza fisica - fino alla totale eliminazione - gli ostacoli sociali (individui e/o gruppi) a quella che può essere definita, in ultima istanza, l'espansione della volontà di potenza insita nell’uomo. Volontà che può essere culturalmente sublimata, ma non soppressa. A cicli alterni, e secondo le circostanze, riappare, per poi scomparire di nuovo, ritornare, e così via. La violenza, insomma, ha una sua storia naturale segnata da un andamento ciclico, condizionato, come vedremo, culturalmente.
In secondo luogo, la violenza è giustificata o condannata a seconda delle convenienze e sulla base di retoriche politiche differenti. Ad esempio, il terrorista per giustificarsi parlerà di risposta alla violenza del sistema; il poliziotto che reprime si appellerà al rispetto della legge, qualificando, la sua violenza, come uso legale della forza pubblica contro gli eversori.
In terzo luogo, il giudizio sull’ uso della violenza muta sulla base della risposta storica: i vincitori presenteranno sempre se stessi come difensori della pace e gli sconfitti come guerrafondai, e così via.
In quarto luogo, l’intensità della violenza usata contro un ostacolo sociale (individui e/o gruppi) resta legata al grado umanità che gli si riconosce: quanto più l’ostacolo sociale è considerato di natura aliena o sub-umana, tanto più la violenza esercitata sarà rivolta alla sua completa eliminazione. Pertanto l'esplosiva miscela odio-violenza andrebbe sempre maneggiata con grande cautela. E mai con quella superficialità che spesso affiora in certi dibattiti, anche in Rete, dove, ad esempio, si parla fin troppo genericamente di “violenza sistemica”, non tenendo presente, appunto, che più si spersonalizza umanamente l’avversario, più si corre il rischio di sposare la causa della “soluzione finale”.
In quinto luogo, proprio perché la violenza ha una sua storia naturale, non ha un limite oggettivo, se non quello della totale distruzione reciproca o di una delle due parti. Ma esistono invece - e per fortuna - limiti culturali, come dire soggettivi (sempre riferiti all'individuo e/o gruppo sociale), che di regola riescono a ciclicizzarla, sublimarla, controllarla. Le teorie pacifiste, di ispirazione religiosa o meno, ne sono un esempio. Ma anche quelle ispirate al diritto naturale. Come pure le moderne teorie procedurali della politica di stampo liberale. Oppure quelle del cosiddetto “dolce commercio” come apportatore di pace eterna e universale. Sono “retoriche” ( o narrazioni, come è di moda dire) che possono piacere o meno, ma se ci si passa l'espressione, tali teorie "aiutano": rendono l'uomo più riflessivo. Per alcuni anche troppo. Ma questa è un'altra storia.
In sesto luogo, la benevolenza, non sopprime per sempre il nemico né la violenza. Dal momento che è il nemico stesso a designare un certo ostacolo sociale (individui e/o gruppi) come proprio nemico. Il che significa che si può pure porgere l’altra guancia, ma se il nemico, come di regola accade, ha prescelto e deciso di distruggere "proprio quel certo ostacolo sociale", ogni benevolenza del prescelto o dei prescelti sarà inutile.
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Fine di un ciclo?
Pertanto il vero problema, che ogni gruppo sociale si è sempre trovato a dover risolvere, pena la propria autodistruzione, resta quello di come individuare un giusto equilibrio storico e sociologico tra limiti (o vincoli) culturali e dinamica naturale e ciclica della violenza. In alcune epoche ci si è giunti consapevolmente, in altre meno.
Sotto questo aspetto la società contemporanea ha abilmente sublimato e proceduralizzato la violenza, proprio perché uscita da un gravissimo conflitto bellico (la Seconda Guerra Mondiale), dove si era fatto un uso inaudito della violenza.
In questo processo un ruolo essenziale è stato giocato dallo sviluppo economico, dalla nascita del welfare state, dalla democrazia sociale e pacifista (all’interno). Fattori che hanno consentito al mondo occidentale e industrializzato, di “proceduralizzare” e “anestetizzare” la violenza, puntando su un sistema di garanzie sociali, di cultura consensuale e di procedure economiche e sindacali, durato più di sessant'anni. E che ora, come evidenziano le recenti avvisaglie, non solo in Italia (contestazioni, anche violente, sequestri di dirigenti, manifestazioni di massa come in Grecia), sembra stia entrando in crisi.Infatti, il rischio che si apra un nuovo ciclo, come dire, della violenza predominante, interno all’Occidente, non è da escludere. Dove, attenzione, il pericolo maggiore è quello della violenza acefala a spirale: del colpo su colpo, segnato appunto dal vortice violenza extra-istituzionale/violenza istituzionale; vortice capace di risucchiare tutto e tutti. Che già si va profilando, soprattutto in alcune grandi periferie urbane europee, anche grazie a quell'ossessione per la sicurezza, agitata come uno straccio rosso dai governi di destra. “Straccio” davanti al quale il "toro" teorico e giustificativo della vecchia violenza di classe - "contro la violenza borghese" o “sistemica” - sembra aver già pavlovianamente preso posizione, minacciando di partire a testa bassa. Il che però non significa che la violenza extra-istituzionale - risanatrice per alcuni - possa di per sé, aprire chissà quali prospettive future di libertà e progresso. La violenza è sempre e solo violenza. E come abbiamo già detto ha una sua storia naturale. E rimane solo violenza, anche se nasce da una situazione di oggettivo disagio. Non basta toccare, magicamente, il punto limite della disorganizzazione sociale.
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Il vero problema
Il vero problema è come lo si tocca, con chi, e con quali progetti ricostruttivi. Perché, in effetti, quel che per ora manca è un serio progetto alternativo. Anche perché all’orizzonte non scorgiamo una classe dirigente alternativa capace realizzarlo, né un’elite culturale onesta e sincera, né un movimento sociale ben radicato che non sia puro ricettacolo di “spostati”. Di qui la puerilità di certi dibattiti.
E' poi così difficile capire che l'interpretazione qui proposta della violenza quale fattore storico e sociologico ciclico non implica alcun giudizio di valore? Ma solo la necessità, come saggezza sociologica impone, di comprendere che la storia – meccanismo assai complesso - non ammette scorciatoie o salti. Di conseguenza la violenza per la violenza non serve a nulla. Anche se frutto di risposte meccaniche a oggettivi processi sociali di disgregazione: non esistono solo il "Sociale" o solo l'Economico, come meccanismi auto-riproduttivi, esistono anche il "Culturale" e il "Politico" che influiscono (spesso in modo determinante), completandoli dal punto di vista dei significati profondi, i meccanismi sociali ed economici .
Il vero problema delle rivoluzioni non è tanto ( o solo) conquistare il potere, quanto quello di gestirlo "dopo la vittoria" : di come trasformare (recependo il costruttivo insegnamento delle grandi rivoluzioni borghesi) la violenza rivoluzionaria, anche dura, in sincero, solido e democratico consenso popolare. O se si preferisce la violenza in “forza” culturale e politica: il pugno chiuso in mano tesa e aperta. E per far questo servono uomini, idee chiare e istituzioni, non chiacchiere pseudo-rivoluzionarie da intellettuali frustrati e cinici , pronti a mandare al massacro sempre gli altri: gli ingenui idealisti, spesso giovanissimi. Quasi sempre tra i primi a cadere.
In questo senso la vera missione della sociologia resta quella teorizzata da Auguste Comte: Savoir pour prévoir, prévoir pour prévenir. Ovviamente senza esagerare, perché esiste anche il rischio scientista e tecnocratico. Ma questa è un'altra storia...

Carlo Gambescia
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