lunedì 19 settembre 2011

Autoriforma dei partiti 
Mito o realtà?





Le proposte di ammucchiate o tecno-ammucchiate di questi giorni fanno sorgere molti dubbi sulla capacità dei partiti italiani di autoriformarsi o comunque di intercettare i bisogni della società. E in particolare, pensiamo al Centrosinistra disposto a tutto, anche ad affossare un embrione di bipartitismo, pur di far cadere Berlusconi.
Tuttavia, per capire come stanno realmente le cose, serve un po’ di teoria. È perciò giunto il momento, come il lettore ben sa, di allacciarsi le cinture.
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Fazioni, parti, partiti…
Chi dice partito, dice parte. Infatti, dal punto di vista sociologico, i partiti, come espressione di una fazione politica e strumento a difesa di particolari individui, ceti o classi sociali, sono sempre esistiti. Basta scorrere qualsiasi manuale di storia antica e medievale.
Negli ultimi due secoli però, i partiti moderni, le cui origini istituzionali risalgono allo sviluppo della monarchia costituzionale inglese e alle grandi assemblee rivoluzionarie francesi, si sono trasformati in strumenti rivolti alla rappresentazione legale e funzionale di ideologie e interessi, nonché in istituzioni preposte alla selezione del personale politico. Il che ha rappresentato un oggettivo passo in avanti, rispetto alle antiche e sanguinose lotte tra fazioni avverse. Tuttavia, il Novecento ha visto nascere non solo il partito democratico di massa ( si pensi ai grandi partiti socialisti), ma anche la partitocrazia (come nell’ Italia della Prima Repubblica), nonché il partito unico ( fascista, nazionalsocialista, comunista sovietico). Perché?
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Il partito come gruppo sociale
Non bisogna mai dimenticare che il partito moderno è un gruppo sociale prima che politico, e come ogni gruppo sociale, riflette due “tendenze” sociologiche fondamentali: in primo luogo, “tende” a svilupparsi a danno di altri gruppi sociali ; in secondo luogo, “tende” a costituirsi, al suo interno, secondo criteri gerarchici, perché laddove c’è organizzazione c’è “gerarchizzazione”. Entro certi limiti funzionali, sia lo sviluppo a danni di altri, sia la tendenza oligarchica sono fenomeni fisiologici, socialmente accettabili. Il che però non significa che ogni sistema sociale non abbia un suo punto limite, o di non ritorno. In Russia, il partito comunista, rimasto al potere per più di settant’anni è imploso, dopo aver raggiunto i limiti sociali di tollerabilità e funzionalità. I partiti fascisti e nazionalsocialisti, sconfitti sul campo, attraverso una guerra, hanno trovato proprio nella guerra il proprio punto limite. In Italia, la Democrazia Cristiana si è dissolta in seguito a intollerabili (e disfunzionali) scandali politici.
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Partiti e "regolarità” sociologiche"
Pertanto, si deve tenere conto della natura sociale dei partiti. Di qui - scusandoci in anticipo per il tono professorale - una regolarità o costante sociologica: Una società sarà tanto meno vincolata ai partiti quanto più sarà pluralista e ricca di gruppi sociali alternativi, o comunque in grado di contenere l’eccessivo sviluppo esterno dei partiti. Quanto alla tendenze oligarchiche (altra regolarità sociologica), si tratta di fenomeni interni a ogni gruppo sociale, che non possono essere eliminati, ma soltanto mitigati attraverso una veloce rotazione delle élite al comando. Rotazione che può essere facilitata dal grado di apertura di un partito al resto della società. E in particolare dalla sua natura dottrinaria: dal momento che quanto più un partito è ideologico tanto più resta chiuso agli apporti esterni.
Ovviamente, esiste anche il rischio contrario: che partiti fondati solo sugli interessi, possano essere colonizzati, a loro volta, da altri gruppi sociali, ad esempio di formazione economica o tecnica. Insomma, è sempre un problema di equilibrio storico e sociale.
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L’Italia Repubblicana
In Italia, per ragioni storiche e culturali legate al tardivo sviluppo politico ed economico, che qui non possiamo approfondire, i partiti non potevano non trasformarsi in forze, spesso, colonizzatrici di una società priva di un vero tessuto civile “nazionale”. Di qui, soprattutto nell’Italia Repubblicana, il succedersi di ondate “movimentiste” di segno oppositivo. Semplificando al massimo, possiamo distinguerne quattro: 1) il movimento comunista nell’immediato dopoguerra; 2) i movimenti sociali, anche sindacali, legati alla contestazione sessantottina; 3) Mani pulite (1992-1994); 4) i movimenti antipolitici, sviluppatisi nell’ultimo decennio, a partire dal cosiddetto grillismo.
Qual è vero il punto della questione? Che non vanno assolutamente demonizzati i movimenti sociali. E in un senso preciso: reprimere non basta. Al movimento devono però sostituirsi, per gradi, le istituzioni. Detto altrimenti: le classi dirigenti, se non vogliono essere spazzate via, e talvolta in maniera violenta, devono favorire l’edificazione di società più solidali e pluraliste, certo seguendo i “parametri” imposti dal tempo e dalle risorse economiche. Non esistono, infatti, società giuste e solidali “in assoluto”, ma solo “in senso relativo”, ossia in base ai bisogni, come dire, legati al momento storico.
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Conclusioni ( o quasi)
Il problema, ripetiamo, prima che politologico è sociologico. La dura protesta dei movimenti sociali verso la democrazia rappresentativa, incarnata dai partiti, di regola, segnala il raggiungimento del punto limite di tollerabilità e funzionalità sociali. Al comunismo che criticava la legittimità dei partiti post-resistenziali (senza il Pci, insomma), si rispose con la “ricostruzione” sociale ed economica degasperiana; al Sessantotto, con un mix di riforme sociali ed economiche, a partire dallo Statuto dei Lavoratori; a Mani Pulite, con le riforme politiche, come l’introduzione del bipartitismo.
Ora, concludendo la lunga galoppata “teorica”, il Centrosinistra vuole seppellire proprio il bipartitismo. Ma le ammucchiate pure e semplici, o le tecno-ammucchiate composte di soli tecnici ed esperti, lontanissimi per mentalità e formazione dalla gente comune, possono favorire il pluralismo e la solidarietà sociali?
Carlo Gambescia

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