giovedì 19 maggio 2011

Il libro della settimana: Giampaolo Pansa, Carta Straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani, Rizzoli 2011, pp. 412, euro 19,90.

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Una volta arrivati a pagina 412, l’ultima, del libro di Giampaolo Pansa (Carta Straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani, Rizzoli, euro 19,90), ci si sente come dopo un lungo viaggio ferroviario in compagnia di qualcuno simpatico ma verboso. Quando, scendendo, ci si chiede ma di cosa ha parlato il nostro compagno? Boh… Di tutto un po’. E così è andata con Pansa: «Tizio è un furfante, Caio un dritto, Sempronio un inetto…; Quando ero giovane io, caro lei…; Quello sì che era un uomo…». Certo, Pansa non è uno qualsiasi, sa sempre come farsi ascoltare.

Ma procediamo per gradi. Intanto, per parlare difficile qual è il sottotesto? Che «il giornalismo di oggi » somiglia a una «macchina confusa, a volte immersa nel caos, e non di rado un nido di vipere, uguali a tanti altri serpai d’Italia». Non è una grande scoperta… Già il Balzac de Le illusioni perdute, ego-dirimpettaio ottocentesco che a Pansa non dovrebbe dispiacere, aveva capito tutto: « Il giornalismo è un inferno, un abisso d’iniquità, di menzogne, di tradimenti ».
Certo, Pansa attualizza, facendo nomi e cognomi. E come sempre il suo stile è inconfondibile, musicalmente lo si potrebbe definire un evergreen: «Questo è un libraccio molto personale», scrive, «zeppo di ricordi, di personaggi di situazioni. Tutta merce spacciata alla buona, quasi sempre in modo sornione e allegro. Ma con un bel po’ di pagine toste scritte all’arma bianca, da vera carogna».
Giusto, « merce spacciata alla buona ». Forse, troppo alla buona però. Perché il libro ruota intorno al pop-tormentone, oggi targato Libero-il Giornale . Quello della sinistra post-comunista e post-illuminata («Partito de La Repubblica» in primis) che odierebbe a morte il parvenu Berlusconi, fino al punto di evocarne la defenestrazione. Anche a colpi di mini-riproduzioni del Duomo milanese.
Ora, per carità, nessuno nega la natura settaria dell’ antiberlusconismo. Ma quel che manca è la corretta genealogia storica dell’odio un tanto chilo verso il Cavaliere. Pansa (forse perché allievo di Alessandro Galante Garrone?) glissa sulla natura autoritaria dell’azionismo politico, soprattutto di marca torinese, principale collante storico e ideologico del fascismo degli antifascisti: un mix di giacobinismo e perfettismo morale, oggi ben esplicitato, perfino nei titoli, dal «Partito de La Repubblica». Un «partito» di spocchiosi Unti dalla Ragione che pretende di costruire ex novo l’italiano, sempre a calci nel sedere come il fascismo, ma in nome delle libertà borghesi. Tuttavia, se ci si perdona la caduta di stile, i calci in culo sono sempre calci in culo, a prescindere dall’uniforme del sergente maggiore di turno.
Si dirà, un giornalista, anche bravissimo, non è tenuto a leggere a fondo quel (pardon) palloso di Augusto Del Noce. Giusto. Peccato però, perché approfondendolo, Pansa, col suo fiuto, avrebbe scoperto che tra la Repubblica di Scalfari e quella di Mauro c’è solo differenza di grado e mai di specie...
Nel libro c’è anche del buono, e non poco. Infatti, nonostante la “tratta” sia lunga, il viaggio scorre in modo piacevole. Perché dal finestrino si possono apprezzare i numerosi ritratti in stile “bestiario” di colleghi e personaggi politici, dove Pansa dà il meglio di sé, come nel caso di Gianfranco Fini: «Per cominciare, aveva una faccia sbirola, stramba da seminarista frustato. Con quel naso a proboscide che sembrava sempre sul punto di staccarsi. Il suo lento accento bolognese mi ricordava il “lasagne, lasagne!”. Era la cantilena che, un tempo, alla stazione di Bologna accoglieva i viaggiatori affamati di pasta al ragù». Niente male come inizio. «Mentre lo seguivo passo dopo passo», prosegue Pansa, «compresi di Fini più di una cosa. La prima era che Lasagne aveva la stoffa non dell’ideologo o dello stratega, bensì soltanto del tattico. Capace di marciare con un ritmo costante, ma senza correre a rompicollo. E soprattutto senza avere ben chiaro il traguardo ». Colpito e quasi affondato. Ma ora viene il meglio: « Argenio Fini [il padre di Fini, volontario della Divisione San Marco, ndr] era scampato alle mattanze dei vincitori comunisti nel dopoguerra. Chi non aveva avuto la stessa fortuna era stato un cugino del padre. Quel parente si chiamava Gianfranco Milani e aveva vestito la divisa della Guardia Nazionale Repubblicana a Bologna. Il 26 aprile 1945 venne sequestrato dai partigiani rossi a Monghidoro (…). Da allora sparì nel nulla (…). E quando il futuro presidente della Camera nacque (…) fu chiamato Gianfranco in memoria di quel ragazzo assassinato». Ecco, la stoccata finale: «Le mie ricerche sulla guerra civile mi hanno insegnato che, nel mondo dei vinti, non succede quasi mai che le vicende famigliari vengano cancellate. È una costante che vale non soltanto per i genitori, i fratelli e le mogli di chi ha perso la vita, ma anche per i figli, i nipoti, i pronipoti. Il sangue versato e il silenzio imposto dai vincitori rendono la memoria uno scudo. I vinti non dimenticano. E quasi mai cambiano campo, anche quando arrivano a pensare che i loro morti abbiano pagato per una causa sbagliata. Fini non appartiene a questa etnia» .
Pagina strepitosa. Da sola, vale il prezzo dell’intero "biglietto ferroviario"...

Carlo Gambescia

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