venerdì 18 febbraio 2011

Sul rapporto tra sinistra e ceti medi ne abbiamo lette di tutti i colori. Crediamo però che l'analisi dell'amico Teodoro Klitsche de la Grange  colga nel segno e aiuti a capire le ragioni della profonda crisi politica che tuttora tormenta eredi e orfani del Pci.
Buona lettura. (C.G.)
La sinistra e i ceti medi, 
da Berlinguer a Prodi
di Teodoro Klitsche de la Grange




Da alcuni anni (meglio sarebbe dire decenni) la propaganda del centrosinistra, tutta imperniata su Berlusconi come Male/Nemico assoluto, e indicato tale perché è un… satiro, diseducatore e così via, mi fa venir in mente un famoso articolo di Enrico Berlinguer, esemplare di un pensiero realmente politico (e di sinistra).
Scriveva il segretario del Pci subito dopo il golpe di Pinochet in Cile che “tra proletariato e la grande borghesia – le due classi antagoniste fondamentali nel regime capitalistico – si è infatti creata, nelle città e nelle campagne, una rete di categorie e di strati intermedi, che spesso si sogliono considerare nel loro complesso e chiamare genericamente «ceto medio»”. E prendeva atto che, pur essendosi formata in Italia una consistente e combattiva classe operaia, questa era tuttavia “una minoranza della popolazione del nostro paese e della stessa popolazione lavoratrice”. Citando altri elaborati del Pci Berlinguer rilevava che “per gruppi decisivi di ceto medio il passaggio a nuovi rapporti di tipo socialista o socialisti non avverrà che sulla base del loro vantaggio economico e del libero consenso, e che in una società democratica che si sviluppi verso il socialismo sarà garantita la loro attività economica” ne consegue che “la strategia delle riforme può dunque affermarsi e avanzare solo se essa è sorretta da una strategia di alleanze. Anzi, noi abbiamo sottolineato che, nel rapporto tra riforme e alleanze, queste sono la condizione decisiva perché, se si restringono le alleanze della classe operaia e si estende la base sociale dei gruppi dominanti, prima o poi la realizzazione stessa delle riforme viene meno e tutta la situazione politica va indietro, fino anche a rovesciarsi” e “Naturalmente, la politica delle alleanze ha il suo punto di partenza nella ricerca di una convergenza tra gli interessi economici immediati e di prospettiva della classe operaia e quelli di altri gruppi e forze sociali”. Ne consegue che, in una società così stratificata l’azione politica non sia effettuata “in modo da sospingere in posizione di ostilità vasti strati di ceti intermedi, ma riceva invece, in tutte le sue fasi, il consenso della grande maggioranza della popolazione… Questo è certamente uno dei problemi vitali che ha dinnanzi a sé un governo di forze lavoratrici e popolari”. Seguiva la famosa proposta del “compromesso storico” e il rifiuto dell’alternativa di sinistra “la contrapposizione e l’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a una spaccatura a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico… Ecco perché noi parliamo non di una «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica»”. In altri termini il rifiuto del bipolarismo/bipartitismo e la scelta per la grande coalizione con i cattolici (oltre ai socialisti).
Si dirà che la prospettiva di Berlinguer è datata, perché in larga parte dovuta a condizioni storiche distanti anni-luce dalle attuali (in primo luogo per il crollo del comunismo). Tuttavia c’è un nucleo d’intuizioni che regge al decorso del tempo e tuttora appare utile per indirizzare una politica di sinistra che non si riduca alle querule denuncie delle satiriasi di Berlusconi.
È quello che fa derivare l’azione politica dall’articolazione sociale, che indica nei ceti medi l’alleato preferenziale e nel tener conto degli interessi dei medesimi nell’attuare politiche che non siano, per vocazione, minoritarie.
A valutare sulla base di queste considerazioni – in cui, accanto a Gramsci c’è molto Bernstein, come nella tradizione socialdemocratica del XX secolo – la politica del centrosinistra nell’ultimo quindicennio se ne vede chiara la distanza (e l’errore) abissale.
Se infatti c’è stata una costante della politica dei governi di centrosinistra – sia quelli “mascherati” (Ciampi e Dini) che in quelli manifesti (Prodi, D’Alema e Amato) – è di non tener conto degli interessi dei ceti medi – neanche di quelli “produttivi” (la distinzione è ovviamente, labile), e anzi d’irritarli.
Lo prova in primo luogo la politica fiscale: che non colpisce i redditi elevati ed elevatissimi (difficili oltretutto da colpire in mercati “aperti”), ma quelli delle classi intermedie. Ma non è il solo esempio: oltre alle privatizzazioni, spesso risoltesi nel passaggio d’imprese dalla mano pubblica a grandi capitalisti privati, c’è – soprattutto – la pervasiva presenza di un’amministrazione di scarsa efficienza (il cui costo pesa su tutti e quindi sul ceto medio) e, più ancora, funzionale, più che alla resa di servizi – spesso mediocri – a un occhiuto controllo politico-sociale; per finire con una giurisdizione che a detta dello stesso Procuratore generale della Cassazione, ha un’efficienza più o meno pari a quella del Sao Tomé, e che, anch’essa, abbassa l’efficienza e l’appetibilità per gli investimenti esteri del sistema – Italia.
In queste condizioni la pretesa di ottenere un consenso maggioritario si allontana per la sinistra: i tre milioni di voti persi nel 2008, grazie al disastroso secondo governo Prodi, che riuscì perfino ad irritare i ceti medi facendo cose condivisibili (come una larga percentuale delle “lenzuolate” Bersani), ne è la prova.
Onde credere di scalfire il consenso a Berlusconi, basantesi (anche e soprattutto) sul blocco sociale imperniato sul ceto medio, sperando in un improbabile soprassalto moralistico (da beghine) è a metà tra l’irreale e l’umoristico. E da la misura della decadenza di una sinistra vieppiù incapace di coniugare analisi teorica ed azione politica. Quello che da Gramsci a Berlinguer aveva sempre saputo fare.



Teodoro Klitsche de la Grange



Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).

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