martedì 15 febbraio 2011

Immigrazione. 
La cultura dell’ et-et

La crisi sociale del Nord Africa e gli sbarchi di Lampedusa, sull'onda dell'allarmismo mediatico, rendono ancora più infuocato il dibattito sull'immigrazione. Cerchiamo di fare il punto.
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I dati
In base a dati Istat, non freschissimi (2009) ma più che sufficienti per farsi un’idea, al primo gennaio 2008 gli immigrati hanno superato la soglia dei quattro milioni (4.328mila, di cui sono 3.677mila regolari), 346mila in più rispetto al 2007. Nel 2030, secondo studi condotti da alcuni centri di analisi e ricerca (ad esempio Fondazione Migrantes), presumibilmente - e per alcuni quanto stiamo per dire equivale a un “uppercut”- gli immigrati presenti in Italia saranno circa 8 milioni, con un aumento del 137% sul 2008. Il Nord-Ovest accrescerebbe i propri residenti stranieri del 154%, il Nord-Est del 152%, il Centro del 128% e il Mezzogiorno del 75%. Se oggi ci sono in media 6 stranieri ogni 100 italiani, nel 2030 ce ne saranno 14,9 (nel Settentrione il rapporto salirebbe a 22, mentre nel Mezzogiorno a 3,8). Passando all’analisi delle fasce d’età, nel 2030 nel Nord avremmo uno straniero ogni tre italiani sia tra i minorenni che tra i giovani adulti (18-34enni), mentre tra i 35-44enni si ipotizza un rapporto di quattro a dieci.
Attualmente gli immigrati dell’Est Europa rappresentano il 43% degli stranieri residenti in Italia. Il primato di presenze va alla Romania che al 1° gennaio 2008 conta 625mila unità (l’87,% in più rispetto al 2007). Segue l’Albania con 402mila presenze. Al terzo posto il Marocco con 366mila immigrati. Registrano elevati tassi di crescita anche la Polonia (+34%), la Moldova (+23,2%) e l’Ucraina (+10%), cui si affiancano il Bangladesh (+19,6%) e l’India (+11,6%). Non è detto però che l’Est Europa sia destinata a svolgere un ruolo di “primo” serbatoio dei flussi migratori. Si prevede infatti che Serbia, Montenegro, Polonia, Ucraina e Romania per il 2030 avranno una sostanziale stabilizzazione (assieme alla Cina) dei flussi. Le nazionalità destinate a crescere in modo esponenziale sono quelle latinoamericane (Ecuador e Perù), asiatiche (Filippine, Bangladesh, Pakistan, India) e africane (Senegal, Nigeria ed Egitto).
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Le due culture
Questi i dati nudi e crudi. Perciò non si può far finta di nulla. Il vero problema è che l’Italia della politica non sembra pronta culturalmente. In sostanza, finora, hanno avuto la meglio due culture contrapposte: quella della “porta aperta a tutti” cara alla sinistra e alle gerarchie cattoliche e quella del “ padroni in casa nostra”, privilegiata da certa destra, non solo leghista. Un vicolo cieco.La cultura della “porta aperta a tutti” dà per scontato l’inserimento del migrante nel nuovo contesto socioculturale, grazie al conseguimento di un lavoro, all’affitto di una casa, alla cittadinanza. Si tratta di un approccio universalistico, che considera ininfluenti le differenze socioculturali. O comunque superabili nel tempo, grazie all’utilitaristica adesione da parte del migrante, divenuto “immigrato-cittadino”, alle istituzioni di adozione, attraverso la creazione di un’area franca di “fedeltà repubblicana”.
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"Padroni in casa nostra"?
La cultura del “padroni in casa nostra”, dà invece per scontato che il migrante sia presuntivamente pericoloso. Si pensi, ad esempio alle dichiarazioni di un Borghezio. Di qui l’impossibilità di inserire il migrante, in quanto “cellula” potenzialmente “patogena” all’interno di un tessuto “sano”. Siamo davanti a un approccio particolaristico che considera determinanti le differenze socioculturali, forse troppo. Tuttavia, i migranti, pur essendo considerati pericolosi vengono classificati, a livello governativo, come appartenenti a nazionalità con “potenziali” criminogeni diversi. E così il filippino sarà sempre più “addomesticabile” del rumeno. Insomma, il particolarismo implica una specie di razzismo differenzialista: prima gli italiani, poi i filippini, eccetera…
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Nomadi e sedentari
Come uscire dal vicolo cieco dell’aut-aut del “tutti dentro o tutti fuori”? Puntando sull’ approccio socioculturale. Tradotto: va preso in considerazione il “brodo” di cultura e relazioni in cui vive il migrante. Quando arriva in Italia, di regola, il migrante si trova già inserito in un circuito socioculturale di connazionali: persone con cui divide valori, desideri, ma anche bisogni e paure. Sono in genere strutture claniche, parentali, familiari, che spesso vanno a intersecarsi con le strutture illegali che gestiscono l’immigrazione, in patria e all’estero, indirizzandola verso specifici settori: dalla prostituzione allo spaccio di droghe, ma anche all’accattonaggio e al lavoro nero. Pertanto il migrante viene subito cooptato all’interno di tali strutture, che talvolta, per i paesi extraeuropei, godono anche di appoggi consolari. Spesso perché il migrante deve ripagare il “viaggio” o perché gli è più facile “relazionarsi” socialmente con i suoi “simili”, coi quali divide un vischioso ma confortante “brodo” socioculturale, imbevuto di tradizioni, bisogni, ricatti e sentimenti. In genere 2 migranti su 3 tendono a restare immersi nel “loro brodo”, o perché vogliono ritornare presto nel paese di origine, o trasferirsi, più avanti, in una nazione terza. Ecco perché è corretto definirli migranti e non immigrati. Da ciò discende la difficoltà istituzionale di stabilire un “contatto”. Siamo davanti all’antico problema del complesso rapporto tra culture nomadi ( o semimobili), quelle dei migranti, e culture sedentarie ( o stabili), quelle dei paesi “riceventi”, E le culture (stabili o mobili che siano) non possono mai essere troncate con un secco colpo di spada.
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Le ambiguità del mercato
Da ultimo va ricordato che il mercato capitalistico per un verso non facilita l’integrazione culturale del migrante, spesso ridotto a puro fattore lavoro, mentre per l’altro, favorisce le migrazioni imponendo, quando occorre, al lavoratore-migrante di trasferirsi seguendo le fluttuanti necessità del ciclo economico. Insomma, il mercato capitalistico, proprio perché basato su valori materiali, non può contrastare “spiritualmente” i suoi effetti economici di ricaduta sul “brodo” socioculturale cui abbiano accennato.In questo senso la cultura della “porta aperta” può favorire, in un clima già alterato dagli inesorabili meccanismi utilitaristici del mercato, la riproduzione, per reazione protettiva, di vischiosi e pericolosi legami comunitari. In che modo? Facilitando sia la nascita e lo sviluppo di una criminalità etnica (una specie di “contro-stato”) , sia la violenta reazione identitaria e religiosa (una specie di contro-chiesa, si pensi ai diversi fondamentalismi…) dei migranti solo formalmente “nazionalizzati”. Come nel caso esemplare degli “immigrati citoyens” delle periferie-ghetto francesi.
Per contro, la politica del “padroni in casa nostra” con il pendant della poliziesca “tolleranza zero”, può limitarsi soltanto a reprimere. Rischiando così di giocare a livello istituzionale il ruolo di “Guardia Bianca” del capitalismo. Con l’ulteriore pericolo di favorire la crescita del razzismo diffuso, dal momento che si indica un nemico: il migrante. Ma anche di innescare possibili contro-risposte identitarie, persino da parte delle comunità più stabili di non recente immigrazione.

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La cultura dell'et-et

Concludendo, che fare?
Barricarsi dentro o aprire a tutti? O puntare su una terza via, all’insegna dell’ et-et, fatta di strutture flessibili, giuridiche e sociali, ancora da inventare. Capaci di separare, ma non troppo, il migrante dal suo “brodo” e al tempo stesso di regolamentare gli accessi senza però infierire.
Tutto qui. Purtroppo riconosciamo, almeno per ora, di non avere risposte pronte.



Carlo Gambescia

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