venerdì 28 gennaio 2011

Riflessioni
Il "reato di negazionismo"




Si riparla di introdurre in Italia il reato di negazionismo, da perseguire anche d’ufficio. Soluzione già adottata in altri Paesi. Si tratta di una scelta che lascia perplessi, poiché negare la possibilità di esprimere un’opinione, per quanto assurda e moralmente ripugnante come quella di negare l’Olocausto, non rientra nei valori di uno Stato liberale. Ma il vero punto della questione è un altro: quello di comprendere come dietro la “soluzione giudiziaria” vi sia una questione sociologica, probabilmente irrisolvibile, legata al rapporto tra dolore e politica.
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L'intuizione di Simone Weil
Partiamo da Simone Weil. “Tutti i dolori - scrive ne L’ ombra e la grazia (Bompiani) - che non distaccano sono dolori perduti”. Il dolore deve aiutare a crescere. E perciò è necessario prendere le distanze, “distaccarsi”… Il dolore va “messo a frutto” , impedendo che si trasformi in risentimento: verso gli uomini, verso la vita, verso Dio. In questo senso un dolore che non “distacca” è un dolore perduto.Ora, l’ “arte” del distacco, come presa di distanza, non si apprende facilmente, soprattutto sul piano politico. Perché? Per una ragione molto semplice: la politica è il contrario del distacco. Parliamo della politica intesa come lotta, conflitto, guerra (pòlemos): una pratica che scorge nel dolore ( proprio e altrui) uno strumento “polemico” (polemikós, da pòlemos), da “scagliare” contro il nemico o avversario che sia. Ad esempio, nel Manifesto di Marx ed Engels si impone al “proletario” di combattere per la rivoluzione comunista, perché non avrà che da perdervi le “catene”, simbolo di una dolorosa condizione di schiavitù.Ma si possono trovare pagine simili, anche in un’opera di segno posto, come l’ aberrante Mein Kampf. Dove Hitler specula sulle “catene” imposte al popolo tedesco dal “Trattato di Versailles”, ma anche da “capitalisti”, “comunisti”, “ebrei”, eccetera…
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Il male tra amico e nemico
Secondo Barrington Moore jr, politologo e autore de Le cause sociali delle sofferenze umane (Edizioni di Comunità) “le diverse percezioni” della sofferenza e delle sue cause forniscono le basi “narrative” degli eventuali rimedi, e quindi consentono di definire l’amico e il nemico. Perciò - piaccia o meno - la “cognizione” del dolore è all’origine della politica. Facciamo un esempio, ricordando un episodio, che risale all’ottobre dell'anno scorso.
Ecco la replica di Francesco Rossi, padre di Walter (ucciso 34 anni fa da estremisti neofascisti), a coloro che contestavano la presenza di politici di destra alla commemorazione annuale: “Facciamola finita con le provocazioni, le contestazioni. Quando hanno ucciso mio figlio avrei bruciato Roma. Ora, a 82 anni, mi associo al dolore della famiglie di tutti i ragazzi, anche quelli di destra. Il dolore è un collante più forte della politica. Fatela finita e cerchiamo i nostri ideali. Io sono un uomo di sinistra ma oggi bisogna avere un dialogo, anche mio figlio sarebbe stato d’accordo” (“il Messaggero” 1-10-10).
“Il dolore è un collante più forte della politica”. Come non condividere l’auspicio di un padre? Ma nei fatti è proprio così? Sì e no.
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La costruzione del male
E qui veniamo a un libro interessante: La costruzione del male. Dall’Olocausto all’11 settembre (il Mulino). Ne è autore il sociologo Jeffrey C. Alexander. Nel libro si ribadisce come ogni società abbia proprio nella cultura il suo cuore pulsante, dove si mescolano emozioni, speranze, paure. Tutti sentimenti che, inevitabilmente, si traducono in “narrazioni”, che spesso assumono valore vincolante per il comportamento umano. Dal momento che l’uomo non è solo capace di “fare” il bene e il male, ma anche di “pensarlo” o “costruirlo” culturalmente. Il che significa che è vero che il male e il dolore prodotti da eventi realmente accaduti possono essere trasformati, in “collante” culturale, come auspica Francesco Rossi, ma che purtroppo ciò avviene sempre “contro qualcuno”: in politica il dolore unisce e divide al tempo stesso.
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Lettura sociologica dell'Olocausto
Alexander fornisce - tra le altre - anche una lettura sociologica dell’Olocausto: un evento di cui giustamente non è mai messa in discussione la verità storica. In La costruzione del male si studia invece la rappresentazione culturale che i superstiti e le generazioni successive ne hanno dato come strumento simbolico capace di fornire il necessario “collante” alle sue vittime, grazie all’uso di codici linguistici, letterari, cinematografici, giornalistici.
Tuttavia, come capita alle rappresentazioni collettive, a un certo punto anche quella dell’Olocausto ha assunto forza propria, andando oltre la naturale volontà di elaborare il lutto. E così i codici che avrebbero dovuto favorire il superamento del “dramma traumatico”, legato all’ evento storico Olocausto, e lenire funzionalmente le ferite, hanno ottenuto effetto contrario. Perché? Alexander pone l’accento sul “dilemma dell’unicità”. Lasciamolo parlare: “ Fu proprio questo status - di evento unico - che alla fine lo fece diventare generale e departicolarizzato. Questo perché come metafora del male radicale, l’ Olocausto forniva un criterio di valutazione per giudicare il male delle altre manifestazioni. Fornendo un tale criterio di giudizio comparato, l’Olocausto è diventato una norma, e ha dato il via ad una successione di valutazioni metonimiche, analogiche e legali, che l’hanno deprivato della sua unicità stabilendo il grado di somiglianza o differenza da altre possibili manifestazioni del male” (p. 103).
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Male, dolore e rafforzamento identitario
Il che significa, dal punto di vista della teoria sociologica, che per un verso, la “costruzione” sociale del male subito, essendo fonte di identità, può “stabilizzare” una collettività e favorire l’ elaborazione di un lutto per quanto doloroso; per altro verso, la forzata e ambivalente “unicizzazione” del male subito, esasperando il rafforzamento identitario, può provocare comparazioni e conflitti con altre collettività. Sotto questo aspetto, per passare dalla teoria alla pratica, introdurre il reato di negazionismo perseguibile d’ufficio, può finire per non giovare alla stessa comunità ebraica, e in prospettiva, alla giusta causa di Israele. Perché, essendo basato su un’idea di unicità che implica di fatto, come rileva Alexander, la “departicolarizzazione”, moltiplicherà comparazioni, conflitti e possibilità, da parte dei ripugnanti negatori ideologici dell’Olocausto, di atteggiarsi a perseguitati. Un vicolo cieco.
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L'insostenibile pesantezza dell'essere (sociale)...
Resta infine una questione di fondo. Simone Weil ha colto il lato individuale del dolore, dove il distacco può procedere di pari passo con l’ elaborazione interiore del dolore stesso. Barrington Moore jr e Jeffrey Alexander il lato collettivo, dove invece il dolore rischia sempre di nutrire culturalmente la politica come designazione del nemico pubblico, trasformandosi così in risentimento collettivo.
Sarà mai possibile gettare un ponte tra dolore “individuale” e dolore “sociale” ? Purtroppo siamo davanti all’eterno dramma della “socievole insocievolezza” dell’uomo. Perché è vero che il dolore può essere “un collante più forte della politica”, ma solo a patto di rinunciare alla politica come “conflitto”. Certo, il conflitto, può essere addomesticato, come nelle democrazie liberali, ma in ultima istanza resta sempre tale.
Il che apre una contraddizione di fondo: come potrà mai l’uomo, animale politico per eccellenza (quindi “polemico” e portato al conflitto ). contraddire la sua natura profonda? E rinunciare all’ “uso” del dolore come “arma politica”?

Carlo Gambescia

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