lunedì 31 gennaio 2011

Riceviamo e pubblichiamo con piacere il testo di Yehuda Elkana, The Need to Forget , limpidamente tradotto e presentato dall’amico "Teofilatto", assiduo commentatore, al secolo Marcello Bernacchia . L' articolo di Elkana integra e arricchisce, anche in termini di una maggiore ariosità di prospettive, il nostro post di venerdì sul “reato di negazionismo”. Buona lettura. (C.G.)


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Anche nelle scienze sociali ci sono profeti. Come molti profeti, spesso poco ascoltati. Yehuda Elkana (trovate qui un suo profilo biobibliografico) è uno studioso che si è occupato principalmente di filosofia della scienza e dei rapporti fra scienza e società (in italiano è uscito nel 1989, ed è tuttora disponibile presso Laterza, il suo Antropologia della conoscenza).
Elkana non ha rinunciato a prendere posizione anche sullo spinoso tema della memoria, con un articolo decisamente controcorrente, “The Need to Forget”, pubblicato sul quotidiano israeliano “Ha’aretz” il 2 marzo 1988 (l'anno dopo la prima Intifada...), le cui tesi sono state poi ampliate in un libro dallo stesso titolo.
A distanza di quasi 23 anni, il testo rimane di grande attualità. E il profeta poco ascoltato.


Marcello Bernacchia
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Il bisogno di dimenticare
di Yehuda Elkana
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Mi hanno portato ad Auschwitz quand'ero un ragazzino di dieci anni, e sono sopravvissuto all'Olocausto. Ci ha liberati l''Armata Rossa e ho trascorso alcuni mesi in un “Campo di Liberazione” russo. Più tardi ho concluso che non c'era molta differenza nella condotta di tante persone che ho incontrato: tedeschi, austriaci, croati, ucraini, ungheresi, russi ed altri. Mi era chiaro che quello che era accaduto in Germania poteva accadere dappertutto e ad ogni popolo, compreso il mio. D'altro canto, ho concluso che è possibile prevenire questi terribili eventi per mezzo di un'adeguata educazione e con la giusta impostazione politica. Non c'è ora, e non c'è mai stato, alcun processo storico che conduca necessariamente al genocidio.
Per decenni dopo la mia immigrazione in Israele, nel 1948, non ho prestato consciamente alcuna attenzione alla questione se dall'Olocausto possa derivare un messaggio politico e educativo ben definito. Preoccupato del mio personale futuro, evitavo generalizzazioni teoriche sugli usi del passato. Non è che reprimessi o rifiutassi di parlare di quello che mi era accaduto. Parlavo spesso coi miei quattro figli del passato e delle lezioni che ne avevo tratto. Condividevo emozioni e pensieri con loro – ma solo a livello personale. La mia totale riluttanza nel seguire il processo Eichmann; la mia forte opposizione al processo Demjanjuk, il mio rifiuto di accompagnare i miei figli a visitare lo “Yad Vashem” - tutte queste mi sembravano mere preferenze personali, forse in qualche modo idiosincratiche. Oggi però vedo la questione sotto una luce diversa.
Parlando coi miei amici le scorse settimane, ho sentito uno strano vantaggio su quelli che sono nati qui e non hanno sperimentato l'Olocausto. Ogni volta che si racconta di qualche “incidente anomalo”, la loro reazione iniziale è il rifiuto di credere che sia accaduto; solo dopo lo schiaffo della realtà si decidono ad arrendersi ai fatti. Molti allora perdono ogni senso della misura e sono disposti ad accettare il discorso per cui “sono tutti così” o “l'esercito israeliano è così”, oppure detestano i responsabili degli atti e odiano anche gli arabi che ci hanno portati fino a questo punto. Molti credono che la maggioranza degli israeliani siano consumati da un odio profondo verso gli arabi, e sono ugualmente convinti che gli arabi sentano un odio profondo verso di noi. A me non capita niente di tutto questo. Prima di tutto, non c'è nessun “incidente anomalo” che non abbia visto coi mie stessi occhi, intendo questo alla lettera: sono stato un testimone oculare di incidenti su incidenti; ho visto un bulldozer seppellire vive delle persone, ho visto una folla in sommossa strappare le apparecchiature che tenevano in vita persone anziane all'ospedale, ho visto soldati spezzare le braccia di civili, anche bambini. Per me tutto questo non è nuovo. Al tempo stesso non generalizzo: non credo che tutti ci odino; non credo che tutti gli ebrei odino gli arabi; non odio le persone responsabili delle “anomalie” - ma ciò non significa che condoni i loro atti o che non mi aspetti che siano puniti con tutta la severità della legge.
D'altro canto, sto cercando le radici più profonde di quello che sta succedendo in questi giorni. Non sono uno di quelli che credono che metà di questa nazione sia fatta di bruti. Non sono assolutamente uno di quelli che considerano la brutalità un fenomeno etnico. Prima di tutto, non vedo alcun legame fra comportamento incontrollato ed estremismo ideologico. Inoltre, l'estremismo ideologico è più una caratteristica degli ebrei provenienti dalla Russia, dalla Polonia e dalla Germania, molto più che non di quelli le cui origini sono in Nordafrica o Asia.
Alcuni ritengono che la mancanza di sicurezza, l'economia e le pressioni sociali abbiano prodotto una generazione frustrata, che non vede alcun futuro per sé, individualmente ed esistenzialmente – nessuna speranza di conseguire un'educazione e un impiego, di vivere dignitosamente del proprio lavoro, di accedere ad abitazioni confortevoli e a una ragionevole qualità della vita. E' difficile valutare la veridicità di questa affermazione, e specialmente misurare il numero di persone a cui tale frustrazione sembrerebbe applicarsi. Che la frustrazione personale possa condurre a comportamenti “anomali” è ben noto.
Ultimamente mi sono sempre più convinto che il fattore politico e sociale più profondo che motiva molta della società israeliana nelle sue relazioni coi palestinesi non sia la frustrazione personale, ma una profonda “Angst” (angoscia) esistenziale nutrita da un'interpretazione particolare della lezione dell'Olocausto, dalla prontezza a credere che tutto il mondo sia contro di noi e che noi siamo eternamente le vittime. In questa credenza antica, così tanto condivisa oggi, vedo la tragica e paradossale vittoria di Hitler. Due nazioni, metaforicamente parlando, sono emerse dalle ceneri di Auschwitz: una minoranza che afferma “questo non deve più accadere” e una maggioranza impaurita e tormentata che afferma “questo non deve più accadere a noi”. E' del tutto evidente che, se queste sono le sole lezioni possibili, ho sempre sostenuto la prima e considerato catastrofica la seconda. Qui non sto appoggiando una delle due posizioni, vorrei invece affermare come norma che ogni filosofia della vita nutrita solo o in prevalenza dall'Olocausto porta a conseguenze disastrose. Senza con questo ignorare l'importanza storica della memoria collettiva, un clima nel quale un intero popolo determina il suo atteggiamento verso il presente e dà forma al futuro di una società, se vuol vivere in relativa tranquillità e relativa sicurezza, come tutti i popoli. La storia e la memoria collettiva sono una parte inseparabile di ogni cultura, ma al passato non è permesso, né si deve permettere di diventare l'elemento dominante che determini il futuro della società e il destino del popolo. La stessa esistenza della democrazia è minacciata quando la memoria dei morti partecipa attivamente al processo democratico. I regimi fascisti l'hanno capito molto bene e hanno agito di conseguenza. Noi lo capiamo oggi, e non è un caso che molti studi sulla Germania nazista trattino della mitologia politica del Terzo Reich. Affidarsi alle lezioni del passato allo scopo di costruire il futuro, sfruttare le sofferenze passate come argomento politico significa coinvolgere i morti nella vita politica dei vivi.
Thomas Jefferson una volta ha scritto che la democrazia e l'adorazione del passato sono incompatibili. La democrazia fa affidamento sul presente e sul futuro. Troppo “Zechor!” (Ricorda) e la dipendenza dal passato minano i fondamenti della democrazia.
Se l'Olocausto non fosse penetrato così profondamente nella coscienza nazionale, dubito che il conflitto fra israeliani e palestinesi ci avrebbe portati a così tante “anomalie”, e perfino che il processo politico di pace si sarebbe trovato oggi in un vicolo cieco.
Non vedo minaccia più grande al futuro dello Stato di Israele del fatto che l'Olocausto sia penetrato sistematicamente e a forza nella coscienza del pubblico israeliano, perfino di quel largo segmento che non ha sperimentato l'Olocausto, come la generazione che è nata e cresciuta qui. Per la prima volta capisco la serietà di quello che stavamo facendo quando, decade dopo decade, mandavamo ogni bambino israeliano a visitare ripetutamente lo “Yad Vashem”. Che cosa volevamo che facessero dell'esperienza, quei teneri giovani? Declamavamo in modo insensibile ed aspro, e senza alcuna spiegazione: “Ricorda!” “Zechor!” A che scopo? Che dovrebbe farsene un bambino di questi ricordi? Molte delle immagini di questi orrori potrebbero essere interpretate come un appello all'odio. “Zechor!” può essere facilmente interpretato come un appello all'odio continuo e cieco.
Può darsi che sia importante che il mondo in generale ricordi. Non sono sicuro neanche di questo, ma in ogni caso non è un nostro problema. Ogni nazione, compresa la Germania, deciderà da sé e sulla base dei propri criteri se vuole ricordare o no.

Per quanto ci riguarda, dobbiamo imparare a dimenticare! Oggi non vedo alcun compito politico ed educativo più importante per i leader di questa nazione che schierarsi dalla parte della vita, dedicarsi a creare il nostro futuro e non preoccuparsi dell'Olocausto dalla mattina alla sera, con simboli, cerimonie e lezioni. Debbono sradicare dalle nostre vite il dominio di quel “ricorda!” storico.
Ciò che ho scritto qui è aspro e, diversamente dal mio solito, affermato in bianco e nero. Non è un incidente o un mio stato d'animo passeggero. Non ho trovato modo migliore per evidenziare la serietà del problema. So benissimo che nessuna nazione può o dovrebbe dimenticare totalmente il suo passato, con tutto ciò che vi è compreso. Ovviamente ci sono miti essenziali per costruire il nostro futuro, come il mito dell'eccellenza o il mito della creatività; certamente non è mia intenzione che si smetta di insegnare la nostra storia. Sto provando invece a rimuovere l'Olocausto dall'essere l'asse centrale della nostra esperienza nazionale.


(pubblicato nel quotidiano israeliano “Ha’aretz”, il 2 marzo 1988, 
trad. dall’inglese di Marcello Bernacchia)


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Marcello Bernacchia è laureato in psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l'Università di Padova. Ha lavorato nell'ambito della formazione e partecipato ad alcuni progetti editoriali. È coautore di Gioco e dopogioco, sull'uso delle tecniche di gioco in ambito formativo ed educativo, e ha partecipato a Benvenuto!, sul tema dell'accoglienza scolastica. Entrambi i volumi, di ottimo riscontro editoriale (insieme, oltre 10mila copie) sono pubblicati da La Meridiana ( http://www.lameridiana.it/ ).
Attualmente insegna Scienze sociali e Filosofia presso l'istituto “Newton” di Camposampiero (PD), dove accanto alla teoria, ogni tanto fa giocare un po' i suoi alunni (tanto per ricordarsi che cosa faceva nella sua "vita precedente"). Per i più curiosi, Teofilatto è un omaggio al Gian Maria Volonté de “L'armata Brancaleone”.

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