lunedì 15 novembre 2010

  La  fortunata serie  televisiva sulla "Banda della Magliana"
Violenza a portata di telecomando





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Dal 18 novembre andrà in onda su Sky la seconda serie di “Romanzo criminale”. Sorprende - ma fino a un certo punto - il successo televisivo “mondiale” (*) di storie che riguardano un gruppo di feroci e determinati delinquenti romani. Del resto, basta fare un giro su YouTube, ad vocem , per leggere giudizi entusiasti sul "valore" del “Libanese” e sodali.
Lo scrittore-magistrato De Cataldo, autore dell’ omonimo romanzo e supervisore della serie televisiva, ha già messo le mani avanti, dichiarando che nella seconda stagione ci troveremo davanti a "una parabola che ha qualcosa di tragico" E che perciò "la guardino soprattutto quelli che hanno detto che c'era un'esaltazione dei cattivi nella prima. Qui c'è la resa dei conti”.
Ne prendiamo atto, ma il punto è un altro. Anche perché a “Romanzo Criminale” vanno affiancate le più diverse produzioni televisive, di pari successo, rivolte a celebrare il ruolo positivo di polizia, magistratura eccetera, serial che godono di altrettanta ammirazione su You Tube.
Che c’è allora che non va? La dietrologia e il sociologismo facile. Ci spieghiamo subito. I media usano presentare i protagonisti delle fiction (siano poliziotti o criminali) come vittime di un potere più grande di loro che si manifesta attraverso determinismi sociali, capaci di scattare inesorabili: il superiore venduto, il politico intrigante, il poliziotto corrotto, o al contrario il poliziotto onesto ma sfortunato, il superiore integerrimo ma vittima dei potenti di turno, e così via, passando dal micro al macro.
Però in questo modo i media seminano soltanto incertezza e senso di impotenza. Detto altrimenti: al tempo stesso non rafforzano la lealtà dei cittadini nei riguardi delle istituzioni né la capacità di protestare o la voglia di impegnarsi democraticamente. Mentre alimentano nella gente la paura di finire sotto le ruote di una macchina sociale apparentemente inarrestabile. Di qui certo conformismo sociale autodifensivo, dietro il quale però si scorge un gusto collettivo, oggi abbastanza diffuso e talvolta manifesto tra i giovani, per la violenza individuale in quanto tale, come strumento di rapido annullamento dell’altro: una violenza gratuita e tesa alla pura autoaffermazione.
Diciamo che si tratta di una violenza traslata : l’individuo non potendo dirigerla sulle istituzioni, la interiorizza e trasferisce sull’altro.
Concludendo, il problema di certe produzioni televisive non è l'esaltazione del buono o del cattivo, ma l'enfatizzazione della violenza a fronte - perché il messaggio è questo - di un mondo che non potrà mai essere cambiato "né con le buone né con le cattive"... "Cattive", però, che possono essere usate contro chiunque, individualmente, ci dia fastidio. Dal momento che le "buone" impongono tempi lunghi... La bontà non sempre è riconosciuta e gradita... Mentre che c'è di più rapido di un pugno - o di peggio - per "regolare un conto in sospeso"? 
La violenza come forma di guerra tra "poveri"? Forse. E fiction come "Romanzo criminale" non aiutano.

Carlo Gambescia

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