venerdì 12 novembre 2010

Dal momento che si ritorna a parlare di elezioni vicine, se non vicinissime, pubblichiamo un acuto commento dell'amico Teodoro Klitsche de la Grange sul tormentone "riforma della legge elettorale"... Si tratta di un contributo interessante perché proviene da un giurista attento alle questioni sociologiche, e che dunque non vive di soli codici e pandette. Klitsche de la Grange punta al cuore, o sostanza, della questione: la forte diffidenza dei cosiddetti poteri forti (economici), nelle mani di pochi, verso il potere (politico), soprattutto quando capace di suscitare elettoralmente un'ampia e forte legittimazione popolare (C.G.)
.
***
No, la legge elettorale, no
di Teodoro Klitsche de la Grange


..
Da quando tira aria di elezioni, fioccano giudizi assolutamente negativi sulla legge per l’elezione del Parlamento. Non c’è espressione negativa che ci sia risparmiata per stigmatizzare il “porcellum” e l’impellente necessità di riformarlo: e ciò da parte di personaggi tutti eletti in base a questa legge, e, per i leaders di partito, presentatori delle liste e, quel che più conta, decisori dell’ordine in lista, determinante per essere eletti. Ma quando s’indaga su quali norme si vorrebbero riformare, la questione diventa "nebulosa": unica ragione (talvolta) esternata è la reintroduzione del voto di preferenza.
In realtà le caratteristiche principali del "porcellum" – anche se non esclusive di tale “sistema” – erano tre:
a) l’introduzione di un premio di maggioranza (il cui effetto è assicurato, di solito, anche dai sistemi a scrutinio uninominale maggioritario, come, tra gli altri il “mattarellum”);
b) l’introduzione di “clausole di sbarramento” per i partiti minori (quelli che non raggiungono un certo risultato minimo elettorale);
c) la non previsione del voto di preferenza, sostituito dall’elezione per ordine di lista.
Orbene il primo (cioè il premio di maggioranza) è previsto al fine di garantire la governabilità, come succede nella maggior parte dei regimi parlamentari, e anche in Italia nelle elezioni regionali, provinciali e comunali. Anzi nel sub-sistema locale è assicurato assai più che a livello nazionale che chi va al governo non possa essere sfiduciato (nel senso che, in tal caso, diventa automatico il ricorso alle urne) né sostituito (con patti di “staffetta” e simili).
Dato che la nostra non è una Repubblica presidenziale o semipresidenziale, ma parlamentare, il principale sistema per garantire infatti che governi chi ha la maggioranza (anche relativa) dei suffragi è che ottenga la maggioranza (assoluta) dei parlamentari.
Gli altri due non hanno né effetti così positivi (e necessari) ma prevalgono quelli negativi. Infatti entrambi riducono (enormemente) l’effetto d’integrazione e la possibilità di rinnovamento politico, almeno nei tempi medio-lunghi.
Quanto alla clausola di sbarramento: che in un parlamento in cui, ad esempio, come quello insediato, il PDL aveva la maggioranza assoluta dei seggi, e la minoranza si divida com’è, tra PD e IDV, ovvero, se non fosse stata prescritta la clausola di sbarramento, vi fosse anche qualche rappresentante della sinistra “estrema” (e anche della destra “estrema”) non toglie nulla alla governabilità, ma toglie assai alla capacità d’integrazione e rinnovamento, la cui funzione, nelle democrazie moderne è stata assolta principalmente dal Parlamento (e dalle assemblee elettive).
Una distribuzione includente dei seggi parlamentari, serve a dar voce alle minoranze e allo stesso tempo, a evitare che costrette ai margini della vita politica, non diventino partiti extrasistema o, peggio, armati.
Una funzione anch’essa integrativa è quella della preferenza, perché consente all’elettorato di scegliere (o co-scegliere) non solo il partito (e il leader) ma anche il parlamentare, permettendo così che il circuito identitario-rappresentativo si costituisca anche con i parlamentari e non solo con i partiti (e i leaders). É inutile dire quanto sia importante, anche in tal caso, che la stessa dirigenza politica possa essere misurata e rinnovata all’interno dei partiti con il criterio del consenso (preferenziale).
Ma, realisticamente, non è credibile che oggetto delle modifiche alla legge elettorale siano la reintroduzione del voto di preferenza e l’abolizione (o la riduzione) delle clausole di sbarramento: l’uno o l’altra fanno troppo comodo a tutte le dirigenze dei partiti presenti in Parlamento, assicurando il loro potere e la continuità dello stesso: e non si vede per quale ragione dovrebbero trovare un accordo il cui effetto sarebbe trasformarli nei classici tacchini invitati al pranzo di Natale.
E cosa rimane allora?: il premio di maggioranza, il quale almeno nelle aspirazioni del centro-sinistra, e dei poteri forti che ne costituiscono la magna (et valentior) pars, ha l’ossessione di ciò che crea un decisore effettivo, e più ancora un decisore a largo consenso, cioè un governo legittimato dal popolo e dotato dei mezzi di decisione. Per cui le critiche all’ordine di lista hanno la stessa funzione del “falso scopo” in balistica: si finge di mirare a quello, ma è il premio di maggioranza l’obiettivo da colpire.
Ora, ad analizzare l’attuale situazione costituzionale italiana (che non è solo - né tanto – quella descritta nella Costituzione formale) abbiamo che faticosamente è diventata legge (elettorale) vigente che governi chi ha più voti, ma (e qua rifà capolino la Costituzione formale) a condizione di mantenere nella legislatura la maggioranza dei seggi; e, che quel che più rileva – e qua rientra a vele spiegate la Costituzione del dopoguerra – che abbia pochi poteri di governo.
Questa è, in sostanza, la situazione di “equilibrio” (transizione) che si è venuta a creare: e che i poteri forti (e il centro-sinistra) mal sopportano: è chiaro il tentativo e l’obiettivo di rivedere il premio di maggioranza onde togliere a chiunque vinca le elezioni il carisma (e l’autorità) della legittimazione popolare e ancor più l’unico risultato che ne consegue (la maggioranza dei seggi): due passi indietro per il popolo e l’Italia, un passo avanti per loro.
.
Teodoro Klitsche de la Grange

(*) Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).
***
La replica di Klitsche de la Grange ai commenti (16.11-10)
Caro Carlo,
Purtroppo, per ragioni di tempo, cercherò di rispondere globalmente ai commenti apparsi sul blog. Scusandomi quindi per la concisione.
Partendo dalla situazione concreta il problema è costituito da: una repubblica parlamentare in cui le Camere non hanno tanto o solo il potere legislativo, ma la posizione di centralità nell’ordinamento: tant’è che i poteri politicamente più importanti attribuiti al Parlamento non consistono nel legiferare, ma nel deliberare su atti e questioni che non sono leggi (in senso sostanziale) e spesso neppure in senso formale.
Basta leggere gli artt. 78 - 82 e l’art. 94 (sulla fiducia al governo) della Costituzione: enumerano tutta una serie di atti, di competenza delle Camere, (lo stato di guerra, la fiducia, il bilancio, le commissioni d’inchiesta) che non sono leggi in senso sostanziale anche se taluni di essi sono adottati in forma di legge (esplicitamente prescritta, ad esempio, dall’art. 82 per le autorizzazioni ad accordi internazionali).
Per questo un acuto giurista, poco letto in Italia, dove sarebbe invece assai utile studiarlo, come Maurice Hauriou, chiamava, oltre un secolo fa, il potere delle Camere nella Terza repubblica francese (che più parlamentare non si poteva) “pouvoir déliberant” e non “legislatif” per sottolinearne la natura (e la posizione) che era solo parzialmente di organo legislativo, ma in effetti di organo centrale del sistema, quale titolare del potere d’indirizzo politico. E sosteneva anche: a) che la Repubblica parlamentare come forma di governo era un’invenzione francese, perché prima della Terza repubblica, nel mondo “sviluppato” non c’erano che monarchie (costituzionali o) parlamentari o repubbliche presidenziali; b) che il potere centrale dello Stato moderno è quello gouvernemental (governativo-amministrativo) perché è il motore – quello che consentiva alla comunità politica di esistere ed gire.
Poneva così, oltre un secolo fa, le questioni decisive ancora di attualità nel sistema vigente. Finché un governo può cadere perché un ignoto senatore Turigliatto, peraltro del tutto coerente con la propria impostazione politica, ritira la propria personale fiducia al governo, incide poco o punto sul legificio parlamentare: molto di più sulla “tenuta” del governo e sull’indirizzo politico. In una repubblica presidenziale il problema non si pone: in una semi-presidenziale (alla francese) è il Presidente della Repubblica – plebiscitato – a scegliere se costituire un nuovo governo o sciogliere le camere (appello al popolo); nei comuni e nelle province italiane – e nelle Regioni che hanno seguito negli statuti lo schema delle novelle al testo costituzionale – è automatico l’appello al popolo (le nuove elezioni) – con la c.d. “clausola di dissolvenza”.
Ma nella repubblica parlamentare è sempre il parlamento a decidere il da farsi. Da ciò deriva che difficilmente un Parlamento decide di auto-sciogliersi; e pertanto la necessità che negozi la propria sopravvivenza e soprattutto quella della “maggioranza” e del governo che deve esprimere, con gruppi e gruppetti, non solo del tutto marginali, ma spesso neppure espressione di forze politiche (i c.d. poteri forti). I quali condizionano pesantemente sia la legislazione, che l’azione politica complessiva. E qua veniamo al secondo problema: i poteri forti. Non so se sono più di destra o di sinistra: propendo a credere che in larga maggioranza “tifino” per il centro-sinistra, perché conserva loro una repubblica in cui – col sistema (al limite) del senatore o deputato marginale, risultano titolari della “golden share” sul governo; e i richiami continui, accorati e ripetuti alla Costituzione (formale) ne corroborano la propensione (alla “golden share”). Non ripeto oltre quanto già scritto nell’articolo né evidenziato da coloro che sono intervenuti nel dibattito.
Solo due notazioni.
La prima: finché l’analisi, anche costituzionale e politica è limitata, all’aspetto “formale” è chiaro che i poteri forti (nella Costituzione) non esistono perché esistono parlamentari, organi, uffici, mozioni e così via. Ma se si va a quel che più conta – e cioè la pratica - e alla prassi – è chiaro che un governo, formalmente fiduciato dal Parlamento è, in larga parte - il “comitato d’affari” – scriveva Marx – della borghesia. Oggi data l’obsolescenza della teoria delle classi (in senso marxista), lo sarà del capitale finanziario, alleato con la dirigenza burocratica e/o con quella sindacale, ecc. ecc.. La classe dirigente di un paese non è solo quella politica.
Per cui quando Pareto scriveva di plutocrazia demagogica, con cui chiamava il sistema di egemonia in cui le élites dirigenti (nella modernità in larga parte il capitale industriale e finanziario) governano con l’appoggio ed il consenso di élites e strati popolari, a carico di altre frazioni del popolo, identificava con acume un tipo (ricorrente) di situazione politica determinata da alleanze sociali.
La seconda: il tutto che si sta ripetendo non solo in generale, ma nel rapporto tra centro-sinistra e “poteri forti”, o almeno gran parte di essi. Il centro-sinistra non ha nel suo DNA la propensione alla repubblica parlamentare, dato che la scelta della Costituente del dopoguerra è stata storicamente giustificabile, ma non “dogmaticamente” consustanziale alla visione politica della sinistra; tuttavia questa sostiene una scelta che, in tutt’altra situazione storico-politica e sociale, come l’odierna, non ha le giustificazioni che poteva vantare allora. Parlamentarismo e proporzionale hanno comunque avuto – accanto ai demeriti – il grosso merito di aver consentito la gestione e la decantazione di una situazione di contrapposizione netta, ostile e pericolosa; oggi non hanno più quel merito. Non c’è il rischio che i cosacchi abbeverino i loro cavalli in S. Pietro, dato che sono troppo impegnati a fare i badanti ai pensionati italiani.
Per cui una situazione costituzionale del genere fa comodo relativamente al centro-sinistra, assai più a chi aspira a conservare la “golden share”: poteri forti in primis, minoranze politiche minuscole poi.

Teodoro Klitsche de la Grange.

Nessun commento:

Posta un commento