venerdì 15 ottobre 2010

Riflessioni sul "senso sociale" della morte
Società senza futuro?




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Che futuro ci aspetta? Servirebbe la sfera di cristallo… Una cosa però è certa: le “premesse” sociologiche non sono buone. In argomento già esistono le classiche analisi di Sombart, Alfred e Max Weber, Sorokin, alle quali rinviamo i lettori stanchi di passeggiare tra le rovine.
Vorremmo invece esaminare un aspetto, solo in apparenza “scollegato”. Quello del significato che la nostra società assegna alla morte. Infatti, solo il senso sociale attribuito “al morire” può chiarire il valore della vita, e di riflesso, aprire squarci nel futuro.
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La morte scredita

Partiamo da un fatto di cronaca di qualche mese fa: la scomparsa di un giovane attore, Pietro Taricone, morto improvvisamente in circostanze tragiche. La notizia ha avuto grande copertura mediatica, generando commozione collettiva.
La gente comune, nonostante la quotidiana overdose informativa, si è perciò fermata a riflettere. Giusto il tempo però di un telegiornale e di un “approfondimento”.
Perché? La morte nella società divertentistica, o del carpe diem, è qualcosa di scomodo, da “consumare” e rimuovere in fretta. La morte oggi contrasta con due miti: il giovanilismo e il culto per “qualità materiale” della vita. Due “sub-mitologie”, per parlare difficile, che rinviano al “mitema” ( mito inglobante) dell’eterna giovinezza che innerva il nostro intero vivere sociale. Sembra quasi che la nostra società abbia fatto sue le parole di un personaggio di Saul Bellow: “La morte scredita. Il massimo successo è sopravvivere”. Ma in che modo? Regredendo, come vedremo più avanti, nell’ indifferenza animale. Per cui se di Taricone si parla al massimo per due giorni, dell’anziano che muore in povertà e solitudine, nessuno si accorge.
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Se un “vecchio” muore in treno…

Torna utile ricordare un episodio “emblematico” accaduto un paio di anni fa: la morte in treno per infarto di un ultraottantenne, rimasto esanime al suo posto per alcune ore, mentre la gente scendeva e saliva senza interrogarsi su “quella innaturale rigidità”, come scrissero i giornali. Per non per parlare del “personale addetto”, non accortosi di nulla… E di un intero treno andato avanti e indietro tra Torino e Savona per due volte, con a bordo un povero fardello di ossa e carne senza un alito di vita.
E qui veniamo al punto. Come “resocontarono” il fatto i mass media? Parlarono di un disservizio… Nelle cronache si criticò “il personale delle ferrovie” per la “disattenzione”. Quasi si trattasse non di uomo, ma di agenda, borsa, pacchetto dimenticati da qualcuno sui sedili.
Cerchiamo di essere seri, un episodio del genere indica che sono in gioco ben altri problemi che l’efficienza delle ferrovie italiane. A partire, appunto, dal futuro della nostra società.
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I nonni che spariscono tra i fiori

Innanzitutto, oggi è cambiata l’idea stessa di socialità. Si ha timore dell’altro. Si comunica poco, figurarsi su un treno affollato di pendolari… Tutte persone psicologicamente sotto pressione, divise tra impegni familiari, lavoro, bollette e conti da pagare. Poco inclini a solidarizzare, se non occasionalmente contro l’amministrazione ferroviaria…
Inoltre, gli anziani, se non i “vecchi” come l’ultraottantenne pensionato deceduto in treno, vivono in condizioni di marginalità. Li si ritiene improduttivi, noiosi, capaci solo di ripetersi e dire cose scontate. In una parola: inutili.
Infine, come abbiamo già accennato, la nostra è una società che ha rimosso la morte. Si cerca di parlarne il meno possibile. Si celebra la giovinezza. Ai bambini si racconta che i nonni spariscono tra i fiori. E ciò spiega anche quella crescente difficoltà di riconoscere nell’altro, quando accade, i tratti fisici della morte. Così, per disabitudine di pensiero…


La morte-spettacolo
Abbiamo accennato a Taricone. Ma molti ricorderanno anche la scomparsa di Franco Scoglio. Ex allenatore e “pensionato di lusso” del calcio italiano, morì per infarto fulminante in piena diretta televisiva. Nei giorni successivi non si parlò di altro: dello “sportivo famoso” morto a “telecamere accese”. Le immagini del triste evento vennero trasmesse e ritrasmesse da tutti i canali televisivi con dovizia di particolari e commenti. Oggi, l’ultimo respiro di Scoglio è visibile perfino su YouTube. Basta un clic.
Il fatto indica che la morte, grazie al potere della moderna riproducibilità tecnica della realtà, può diventare interessante solo quando avviene, come dire, a reti unificate: in diretta. Solo se riesce ad appagare l’interesse morboso, opportunamente sollecitato, dell’uomo-spettatore. E quindi ad essere spettacolarizzata e trasformata in business.



La “società dei guardoni”
Si pensi alla presenza e all’insistenza delle telecamere in occasione di disastri e terremoti, ma anche di delitti, particolarmente efferati. Si vada con la mente alle accuratissime ricostruzioni mediatiche delle tecniche di eliminazione fisica delle vittima, praticate dal serial killer di turno. Oppure a intere serate televisive, con ospiti in studio, tese a scavare nella vita delle vittime di atroci delitti per evidenziare i particolari più scabrosi. Si pensi ai programmi che indagano sulle sorte delle persone scomparse. Dove poi si scopre, regolarmente, che il “fuggitivo” di turno, spesso con enormi problemi di adattamento alle spalle, si è suicidato in condizioni drammatiche. E dove si disquisisce per ore di poveri resti umani, spesso irriconoscibili.
Per contro, quando la morte è “fisicamente” presente a qualche centimetro, l’uomo-spettatore, o “guardone”, non la riconosce, non se ne accorge. Soprattutto quando si tratta di un vecchio incrociato per caso in treno… Uno “che scoccia”, perché magari vuole solo chiacchierare (“Ma che se lo cucchino i figli, io ho già i miei di vecchi”, oggi così si ragiona…).
In realtà, come abbiamo accennato, il pendolare stressato, vuole solo tornare a casa, per gettarsi alle spalle una giornata di lavoro, accendere finalmente la televisione, per seguire, al sicuro e con la massima attenzione, storie “vere” di morti e delitti.
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Società senza futuro?
Quale può essere il futuro di una società giunta al punto di rifiutare la morte e tutto ciò che la rammemori, a partire da un povero vecchio in rigor mortis incrociato per caso in treno?
Attenzione, stiamo parlando degli uomini: l’ unica specie animale che ha creduto nella sopravvivenza e rinascita dei defunti. La nostra è la sola specie che abbia “pensato” la morte biologica - un ,fatto di natura - quale fatto di cultura. Come notava Miguel de Unamuno, in un’opera fondamentale, Del sentimento tragico della vita: “Ciò che distingue l’uomo dagli altri animali è il fatto che egli cura i suoi morti”. Anche se - concludeva ironicamente - “il gorilla, lo scimpanzé l’orango e i suoi congeneri debbono considerare l’uomo come un povero animale malato, che ammassa persino i suoi morti”… Detto altrimenti: il rifiuto della morte, racchiude sempre la negazione animalesca della cultura e della stessa condizione umana.
Come può plasmare culturalmente il futuro chi rischia di precipitare nell’animalità? Mentre il domani dipende proprio dalla nostra volontà morale e culturale di aprirsi all’altro. Ma come riuscire, se il mondo attuale, come scriveva Sorokin, è “socioculturalmente” privo di amore, se non per stessi? Ecco la vera radice del problema: un egoismo, ormai quasi istintivo, carnivoro, animale che sembra pervadere ogni relazione sociale. In questo senso curiosità morbosa e indifferenza sistematica sono due facce della stessa medaglia.
In un magnifico libro, dove passato, presente e futuro sono ben mescolati insieme, Il ponte di San Louis Rey, Thorton Wilder scrisse profeticamente: “vi è un paese dei vivi e un paese dei morti, e il ponte che li collega è l’amore, la sola cosa che resta, la sola cosa che ha un senso”.
Ora, aspirare a un futuro diverso significa ricostruire quel ponte. Prima che sia troppo tardi.

Carlo Gambescia

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