venerdì 29 ottobre 2010

Il Manifesto d’Ottobre degli “intellettuali finiani”
Tra Badiou e Machiavelli


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Molto si è scritto sull’ incoerenza del Manifesto d’Ottobre elaborato dalle “teste d’uovo” finiane (*). Siamo d’accordo. Ma, attenzione, non perché il Manifesto tradisca le premesse di una qualche “solida” destra divina, o perché, al contrario, sia intriso di "gelatinosi" valori cripto-comunisti. Bensì perché il “patriottismo repubblicano” mal si concilia con la possibilità di favorire la partecipazione politica degli “invisibili”. Ci spieghiamo meglio.
Nel Manifesto, per un verso si punta, salendo esplicitamente sulle forti spalle di Machiavelli, sul "patriottismo repubblicano" come “consapevolezza collettiva del patrimonio materiale e immateriale”, da costruire attraverso “la partecipazione politica”. Per l’altro si proclama, abbarbicandosi implicitamente (ma il linguaggio è rivelatore...) su quelle di Badiou, Negri, Žižek, di voler dare la parola agli “invisibili” e ai “clandestini della politica”, ossia agli “esclusi dalle logiche della rappresentanza e della decisione pubblica”.
Ora, ogni inclusione non può non essere, in primis, sociale ed economica. E qui se ci si passa l'espressione, cade l'asino, perché di welfare nel Manifesto non si parla. Anzi c’è perfino una concessione al mantra iperliberista della “modernizzazione”, cui si affianca, ma solo in extremis, l’ accenno a “ promuovere un’idea espansiva e non puramente negativa della libertà” ( notare, "espansiva": si evita di usare il termine libertà positiva per non far scappare i non pochi liberisti del circolo finiano...)
Inoltre, non è possibile cavarsela a buon mercato costruendo a tavolino il mito dei possibili ceti medi riflessivi di destra, sulla cui esistenza a sinistra non crede più neppure Paul Ginsborg. Ceti, come si legge nel Manifesto, che al momento sarebbero “clandestini” o “refrattari alla vita pubblica”, solo perché “politicamente e intellettualmente più esigenti”…
Ora, ammesso pure che il ceto fenice esista, si tratta, stando alle ridotte quantità di libri e giornali che leggono gli italiani, di una minoranza che non "sposta" più voti a sinistra, figurarsi a destra, dove al libro, almeno tendenzialmente, si è sempre preferito il moschetto.
Ma dov’è l’incoerenza? Nel proporre una soluzione di destra (il "patriottismo repubblicano" ) a una questione di sinistra (quella degli “invisibili” politici e sociali).
Badiou, Negri, Žižek (che fra di loro, sia detto per inciso, non vanno d’accordo su nulla…) definirebbero il Manifesto, e di comune accordo, “termidoriano”. Perché coerentemente, dal loro punto di vista, la conseguente risposta all’esclusione politica, sociale ed economica è rappresentata dalla rivoluzione (comunista). E non dal placido e dottrinario "patriottismo repubblicano" dei professori e dei notabili borghesi, saliti al potere dopo aver eliminato Robespierre.
Altra coerenza avrebbe avuto il Manifesto se si fosse confrontato con la questione dei diritti sociali (mai nominati, a differenza dei diritti civili e politici…), tentando di dare sostanza sociale ed economica, alle sue tesi, senza per questo sposare la causa dei sanculotti o più modernamente quella della socialdemocrazia... Si chiama capitalismo sociale di mercato... Per "scoprirlo" sarebbe stato sufficiente, senza scomodare la Arendt e la città antica, leggere il buon Wilhelm Röpke. O, per restare in Italia, Abolire la miseria di Ernesto Rossi. E ci stupisce che un pensatore mai banale come Giacomo Marramao lo abbia firmato.
Ma, in realtà, era possibile la "sterzata" sociale? No. E per una ragione molto semplice, di Dna: il "patriottismo repubblicano", a voler essere indulgenti, resta un patriottismo da professori, cartaceo anche in senso letterale: dei "signori" che leggono e capiscono i giornali… Vincenzo Cuoco - tra l'altro buon lettore di Machiavelli - già due secoli fa ne aveva intuito le pericolose oscillazioni tra feroce giacobinismo e imperturbabile dottrinarismo.
E questo, probabilmente, è il principale limite metapolitico del Manifesto. Parla a pochi. E meno che mai al popolo.
Carlo Gambescia

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