giovedì 21 ottobre 2010

Il libro della settimana: Edward Shils, Tradition, University Chicago Press, pp. 334.

http://www.amazon.com/Tradition-Edward-Shils/dp/0226753263
Il vero problema non è la tradizione ma... il tradizionalismo, specie se dottrinario, tipo "La Tradition c'est moi ! ". Anzi, per essere ancora più chiari: i tradizionalisti delle più diverse, esoteriche e rigide osservanze. A questo proposito vogliamo tornare sul bel libro di Edward Shils, uscito per la prima volta nel 1981, e riedito qualche anno fa: Tradition (University Chicago Press, Chicago 2006, pp. 334). E purtroppo non ancora tradotto in italiano. Un volume, insomma, che per l’ampiezza e ricchezza delle sue argomentazioni merita di essere calorosamente raccomandato al lettore italiano, soprattutto se attento a queste tematiche, ma ovviamente non in chiave antiquaria e autoconsolatoria. E chi ci segue, sa quanto il pensiero di Shils ci sia stato utile nella stesura di Metapolitica.
Ma, prima di prendere la rincorsa, soffermiamoci un momento sull’autore. Presentiamolo.
Edward Shils, scomparso nel 1995, alla venerabile età di ottantacinque anni, ha insegnato sociologia negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Di origine russo-ebraica, naturalizzato americano, attento studioso di Max Weber e Karl Mannheim, e per un certo periodo collaboratore di Talcott Parsons, figura carismatica della sociologia americana, la cui teoria delle funzioni sociali, in pratica, riproponeva, modernizzandolo, il famoso apologo di Menenio Agrippa.
Shils ha goduto di un momento di celebrità in Italia. Nel 1983, infatti, ricevette il premio Balzan, e sempre nello stesso periodo su invito di Giovanni Paolo II, partecipò agli incontri estivi di Castel Gandolfo, tra il Papa e importanti uomini di cultura. Dopo di che scivolò in una specie di limbo intellettuale. Del resto uno studioso, non cattolico, ma apprezzato dal Papa, non poteva incontrare il favore di una sociologia, come l’italiana, che in quegli anni, pendeva ancora dalla labbra di Marx. E così, a quanto ci consta, l’ unico suo libro tradotto resta Centro e Periferia. Elementi di macrosociologia (Morcelliana 1984) dove svolge alcune degli argomenti sviluppati in Tradition . Un testo esaurito da anni. Ed è un peccato, perché Shils è stato l’unico sociologo, della seconda metà del Novecento, a occuparsi esplicitamente di tradizione.
Ora, che gli ambienti progressisti, lo abbiamo snobbato non deve stupire più di tanto, mentre è non è strano che un libro come Tradition, tra l’altro uscito, come già anticipato, in prima edizione nel 1981, sia sfuggito anche ai tradizionalisti, non dico statunitensi (alla cui parrocchia Shils non aderì mai ), ma italiani.
Però, in effetti, una ragione c’è. Shils “analizza” la tradizione freddamente. Non è interessato a nessuna concezione ab aterno . Insomma, non cerca di giustificare visioni metastoriche di qualsiasi tipo, o ancora peggio, di risuscitare, come uno sciamano, istituzioni storiche, morte e sepolte. Mentre distingue, ottimamente, fra la tradizione in quanto tale (la “tradizionalità“, “substantive traditionality”), che obiettivamente garantisce la continuità sociale attraverso la trasmissione dei valori, e i contenuti delle tradizioni, sui quali di solito si appuntano gli strali delle critiche ideologiche “tradizionaliste” e “antitradizionaliste”. Critiche che, spesso per partito preso, finiscono per gettar via il bambino (la “tradizionalità) con l’acqua sporca, del “tradizionalismo” o dell’ ”antitradizionalismo”, secondo le rispettive preferenze.
Ma Shils non si ferma al tradere. Infatti il termine tradizione, come è noto, viene dalla voce dotta latina traditione(m) che a sua volta proviene dal verbo tradere nel suo significato di “consegnare” (dare) “oltre” (tra), di qui il termine traditio, come “ dare ( "consegnare") oltre” . Ma lasciamo parlare l’autore: 


“ La tradizionalità è compatibile con qualsiasi contenuto sostanziale. I modelli di pensiero, di credenze e relazioni sociale, le pratiche, le tecniche, gli oggetti, creati o meno dall’uomo, e suscettibili di essere trasmessi, possono diventare una tradizione” (p. 16).

Non tutto però “è tradizione”:

“Provare un sentimento non è tradizione: è solo qualcosa che avvertiamo all’improvviso. Un giudizio razionale non è tradizione: è un’asserzione di tipo logico (…) . Un processo di produzione industriale non è tradizione: è una pura e semplice organizzazione di alcune azioni individuali (…). L’esercizio dell’autorità non è tradizione: è un insieme di parole scritte e parlate volte a promuovere o meno alcuni adempimenti individuali. L’esecuzione di un rito, sia che si tratti di un atto (…) celebrativo di un anniversario(…), o di lealtà nei riguardi di un sovrano, magari attraverso un banchetto, non è tradizione: è solo un insieme di parole e movimenti fisici espressivi di fugaci credenze e sentimenti " (p. 31).
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E allora? Per parlare di tradizione serve qualcosa di più, non basta la pura “riproduzione (o trasmissione) sociale” di una certa cerimonia. Occorre che ogni società abbia un “centro”: un “Guiding Pattern”. Un “modello-guida” capace di indirizzare il comportamento che viene reiterato, dando agli uomini la consapevolezza storica, sociale e morale che “quel che stanno facendo sia intrinsecamente giusto” (p. 32). Dal momento che le “tradizioni sono la ‘componente tacita’ delle azioni razionali, morali e cognitive” (p. 33). Senza le quali l’uomo precipita nell’individualismo anomico (privo di regole).
Di qui una serie di analisi molto acute, intorno alle quali si sviluppa il libro. Dall’ esame delle più diverse e opposte tradizioni religiose, politiche, culturali,: dal monoteismo al politeismo, dal liberalismo al socialismo, solo per citarne alcune. Paradossalmente, secondo Shils, la necessità umana di punti riferimento costanti avrebbe addirittura creato nei secoli moderni (antitradizionali per eccellenza), una tradizione dell’antitradizione, fondata sull’idea di progresso infinito e la fine di ogni particolarismo sulla terra, come nel caso del comunismo. Che tuttavia nella Russia sovietica, come fa notare l’autore, “dovette adattarsi ai pregiudizi [nazionalisti, e dunque “passatisti”] dei suoi effettivi aderenti” (p. 238). Per Shils, infatti, fare i conti con la realtà, con quel che realmente pensa la gente, significa fare i conti con le tradizioni, o meglio con la “tradizionalità”: con quelle credenze che mescolando passato e presente nella vita quotidiana delle persone, rendono loro chiara l’altrimenti incerta navigazione nel mondo dei significati sociali.
Particolarmente interessante è la parte dedicata ai modelli di “stabilità e cambiamento”. Secondo Shils una tradizione scompare quando non è più grado di soddisfare il naturale bisogno nell’uomo di regolarità sociale. Il suo “centro” si inaridisce spiritualmente, come fu nel caso delle religioni precristiane, e non riesce più a gratificare moralmente i suoi fedeli e seguaci. Anche se - ecco l’aspetto interessante delle sue tesi - il politeismo in quanto “tradizionalità”, in realtà non è mai scomparso totalmente, anche all’interno dello stesso cristianesimo, quale “centro” di irradiazione, come ad esempio mostrano i culti “periferici” dei santi.
In realtà, Shils mostra che la “tradizionalità” come impasto di passato e presente (i cui ingredienti principali, e per alcuni i migliori, sono sempre i più antichi…), non potrà mai scomparire, perché se ciò accadesse verrebbe meno la stessa socialità umana, e di riflesso ogni forma di vita civile. Pertanto l’uomo, soprattutto se istruito e colto, vive, senza saperlo, immerso nella “tradizionalità”: quando legge l’Iliade di Omero, per poi magari spiegarla agli altri; quando risolve un complesso problema giuridico, usando categorie che derivano dal diritto romano; quando si sposa e mette su famiglia, assentendo tacitamente al valore della monogamia, che ha origini antichissime. E così via.
A questo punto il lettore si chiederà, se al di là della “tradizionalità”, Shils abbia anche una sua tradizione” di riferimento. Certo, ed è quella liberale e moderatamente illuminista. Si tratta di un liberalismo alla Raymond Aron che teme gli eccessi dello stato ma anche quelli del mercato. E di un illuminismo ben temperato dalla conoscenza storica e sociologica, come in Ortega. Scrive Shils:


“Una società è un fenomeno “trans-temporale. La sua esistenza non è rappresentata dal vivere in un certo preciso momento. Ma dall’ esistere nel tempo. Ogni società si costituisce temporalmente. ” (p. 327). .
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E chiunque la privi della sua storia la condanna a morte. Sotto questo aspetto un illuminismo liberale che continui in futuro a deificare il progresso e disprezzare le tradizioni “è un errore colossale”. Mentre il suo compito dovrebbe essere quello di aiutarci, iniziando a scoprire storicamente

“quel che è vivo o morto nell’illuminismo stesso, visto che si è sviluppato a dismisura, perdendo la sua vitalità fino al punto di divenire ingombrante” (p. 330).
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Ecco, quanti tradizionalisti ab aeterno, ferocemente anti-illuministi e anti-liberali, sarebbero disposti a fare autocritica come Shils? Difficile dire. In realtà, progressisti a parte, il vero problema, come abbiamo detto all'inizio, non è la tradizione ma il tradizionalismo. O comunque, certo tradizionalismo. 

Carlo Gambescia

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