venerdì 22 ottobre 2010

A proposito della "neolingua" di Berlusconi...
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Riceviamo e pubblichiamo volentieri il ghiotto commento dell'amico Teodoro Klitsche de la Grange (*) allo scritto sulla "neolingua berlusconiana" del professor Gustavo Zagrebelsky. Il testo del Presidente emerito della Corte Costituzionale è uscito in sintesi su "la Repubblica" il 14 ottobre scorso ed è consultabile anche in Rete. Si veda ad esempio qui: http://legvaldicornia.wordpress.com/2010/10/14/la-neolingua-del-cavaliere/ .
Anche noi, a suo tempo, ci siamo occupati, seppure marginalmente, del pensiero politico del professor Zagrebelsky, a dire il vero non sempre originale e lineare (cfr. qui: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2007/05/il-libro-della-settimana-g-zagrebelsky.html ).
Buona lettura. (C.G.)

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Il professor Zagrebelsky, 
Berlusconi e le "battaglie semantiche"

di Teodoro Klitsche de la Grange


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Si può leggere sulla rete la sintesi di un intervento del prof. Gustavo Zagrebelsky sulla “neolingua del Cavaliere” secondo cui “nella lingua del nostro tempo, si nota la presenza sovrabbondante di un lessico che non sarà certo quello di Schiller ma è forse piuttosto quello di Berlusconi, dei suoi e dei loro mezzi di comunicazione che si esprimono come lui. E noi abbiamo cominciato a parlare come loro”; in sostanza il Presidente emerito della Corte costituzionale ripropone un tema – il rapporto tra lingua e politica – tra i più presenti agli addetti ai lavori (cioè ai politici) anche se tra i meno frequentati dagli studiosi. Tra questi, uno dei più antichi – che ci risulti - è quello del giovane Hobbes che, commentando Tacito, sottolineava la sagacia di Augusto nel cambiare radicalmente la Costituzione romana, perché evitava (in specie per sé) qualsiasi termine che fosse inviso al “senso comune” dei romani: pur essendo in sostanza un rex o un dictator (e a vita) si contentò della carica di Tribuno della plebe (ma a vita) e del termine imperator, in sé “neutro” e non rievocante né il periodo monarchico né quelli più drammatici della fine della repubblica.
Un modo sottile per edulcorare una prassi di segno contrario con un linguaggio “neutro” e non “indisponente”.
Ma forse il prof. Zagrebelsky è andato, con le sue considerazioni, fuori del seminato. Quando, ad esempio, scomoda la teologia politica per l’espressione “scendere in campo” (come se si trattasse della discesa sulla terra di un salvatore, se non addirittura di una novella Incarnazione), a chi la legge (o la ascolta) quella ricorda più il significato letterale (reso più probabile dall’essere Berlusconi presidente di una squadra di calcio), perché dato che il campo sta più in basso delle tribune dello stadio, per giocare la partita è necessario giocoforza scendere al livello del terreno.
E lo stesso – che le tribune stiano più in alto del “campo” (o del palcoscenico) succedeva nel medioevo per i tornei, nell’antichità per gli anfiteatri e i circhi e così via: non pensiamo, per motivi di visibilità (e non di teologia politica) che sia esistito al mondo e nella storia umana un “campo” in cui gli spettatori stessero più in basso dei “competitori”.
E quanto alle altre parole indicate come rivelatrici della neolingua non cambia il tentativo di cercare un significato più distante (e quindi improbabile) invece della metafora più prossima ed usuale; così il contratto – che a un modesto pratico del diritto come chi scrive ricorda la definizione dell’art. 1321 c.c. (l’accordo di due o più parti per costituire, modificare, estinguere…) - e suggerisce quindi l’impegno ad eseguire quanto “stipulato” tra i contraenti, al prof. Zagrebelsky appare invece un giudizio di Dio, una “buona novella” annunciata dagli “apostoli della libertà”, il “riconoscimento del salvatore da parte dei salvati”. Ma resta il fatto che non si capisce né la relazione tra fare un contratto e il “giudizio di Dio” né tantomeno come il contratto (che ricorda sia pure in senso di metafora la parità dei contraenti, le obbligazioni da adempiere e così via) possa trasformarsi in una rivelazione soteriologia (anche perché non ci risulta che Cristo abbia stipulato un contratto con l’umanità, dato che la grazia non è acquisibile con un negozio giuridico, neppure per adesione).
E l’amore? Qua il Presidente emerito critica anche il Partito democratico, che avrebbe imitato il cavaliere. Invece l’amore in politica – e sempre metaforicamente – è la base dell’ “amicizia” cioè di quell’insieme di relazioni che fa si che esista una comunità politica. Ed è polemicamente indirizzato – e questo il prof. Zagrebelsky, anche indirettamente lo sottolinea – contro quelle ideologie volte a sovvertire, attraverso la costituzione di un altro “centro” di rapporti d’amicizia (la classe, il partito, la razza, il Terzo Stato, e così via), la comunità politica; e di cui la modernità ha abbondato fin troppo. Il cui effetto è suscitare un odio (di classe, razza) di una parte della popolazione contro un’altra parte (borghesi, preti, aristocratici, ebrei, kulaki, …). E si sa, da Eschilo in poi, che il nemico è stato un potente collante dell’unità politica: e così l’odio verso il nemico, da certe classi dirigenti è stato accuratamente coltivato e strumentalizzato, anche indirizzandolo contro il vicino di casa.
E che l’Italia, paese che a partire dalla Rivoluzione francese, di guerre civili ne ha avute quattro (dalle insorgenze del 1798-99 al Risorgimento, dal “biennio rosso” e relativa reazione fascista, alla resistenza), abbia bisogno – e in parte si è raggiunto - di praticare meno l’odio e i di esso fomentatori che l’amore, è sicuramente opportuno.
Per l’assoluto; tale vocabolo suggerisce per lo più la chiarezza di impegni e decisioni irrevocabili. Giustamente il prof. Zagrebelsky dice “L’assoluto, invece, comanda e pretende obbedienza” mentre il “relativo è ciò che costringe al confronto e induce a pensare”. Solo che la politica non è la scienza: mentre in questa il “relativo” cioè l’ipotesi verificabile e “falsificabile” è la regola, nel mondo politico (e giuridico), che non è un laboratorio scientifico, c’è sempre il momento dell’assoluto, di ciò che non è ulteriormente discutibile, quale oggetto (e conseguenza) di decisioni irrevocabili. Dal giudicato tra condomini, risalendo fino agli atti espressione di sovranità (come quelli costituenti o dello stato d’eccezione, le rotture costituzionali e così via). In fondo aveva ragione Locke quando diceva che, in certi frangenti, non c’è che l’appello al cielo (altro Assoluto). E ancor di più Vico nel sostenere, distinguendo tra certum e verum, che certum ab auctoritate, verum a ratione. La certezza richiede l’autorità, la verità la ragione, e non sempre, per così dire, coincidono: anzi, non coincidono spesso e, in ogni caso una comunità può prosperare senza verità assolute, ma non senza certezze.
Fare – lavorare – decidere. Anche qua il Presidente emerito sostiene che questo è frutto di un’ "ideologia aziendalista" del fare e del lavorare mette in evidenza, esaltandolo, il momento esecutivo e ignora, anzi nasconde il momento deliberativo: "Chi decide, in che modo decide e che cosa decide? Tutto questo è "assolutamente" fondamentale in democrazia perché rappresenta il momento formativo e partecipativo delle scelte politiche. La logica aziendalista, trasportata in politica, fa dell’efficienza l’esigenza principale: efficienza per l’efficienza. Il fare per il fare: attivismo". Veramente nelle aziende il fare è normalmente finalizzato al vendere: l’attivismo, senza acquirenti, è merce che impolvera sugli scaffali. Tuttavia uno Stato è altrettanto vincolato alla logica del fare e decidere ancor più che qualsiasi altra “entreprise” come sosteneva Maurice Hauriou. Il quale, non a caso, pur vivendo in una repubblica parlamentare (che più parlamentare non si poteva) sottolineava la priorità del potere esecutivo-governativo rispetto a quello delibérante (così chiamava il potere del Parlamento), proprio perché senza un governo una comunità si dissolve; mentre senza un Parlamento può esistere, come la storia prova. Forsthoff sosteneva qualcosa di non molto diverso quando nella legge sottolineava l’elemento della ratio, nel provvedimento quello dell’actio. Se l’actio senza ratio è attivismo, la ratio senza actio è inutile. Pura glossocrazia.
Infine il politicamente corretto, contro il quale sarebbe stata condotta una “battaglia semantica”. Ma anche qua, da almeno duemila anni si sa che, sotto le espressioni accattivanti, corrette, educate, spesso si nasconde una realtà e un’intenzione contraria. Lo sapeva già Tacito, quando nel discorso che mette in bocca a Petilio Ceriale, questi diffida i Galli dal credere alle belle espressioni usate dai Germani per indurli a “liberarsi” del dominio romano: “Sempre identico e unico è il motivo del passaggio dei Germani nelle Gallie, l’avidità senza limiti e la smania di cambiare sede: vogliono lasciare le loro paludi e le loro terre desolate per impossessarsi di questo suolo così fertile e di voi stessi. Naturalmente accampano la libertà e altre belle parole, ma chiunque abbia voluto asservire e dominare gli altri è sempre ricorso alle stesse identiche parole”.
Quindi quel genere di “battaglie semantiche” – e le ragioni che occultano - sono note e praticate (almeno) da 2000 anni. E di esempi sia a livello di politica interna che internazionale recentemente non sono mancati: come le guerre per “l’esportazione della democrazia”, per i diritti umani e via favoleggiando.
In (quasi) tutte le tesi del Presidente emerito ci sono – espresse ovvero implicite – delle presenze costanti (e deprecate): quelle riconducibili a valutazioni più realistiche e non tributarie di molte aspirazioni (e illusioni) della modernità. Di tali aspirazioni, illusioni e buone intenzioni la neolingua dell’ “ortodossia repubblicana” (quella che il berlusconismo starebbe soppiantando) era – ed è – piena. Frutto anche di un’egemonia durata oltre un quarantennio, che, solo nell’ultimo ventennio progressivamente ridimensionata, ora (forse) volge al termine. La “spaccatura”, cui accenna il Presidente emerito è il risultato, lessicale, del deperimento di quell’egemonia. D’altra parte, se i partiti della prima repubblica sono quasi tutti venuti meno, e quelli residui – essenzialmente gli ex – comunisti e la ex sinistra DC, raccolgono ormai un terzo scarso dell’elettorato, questo fatto (reale), anch’esso spia del mutato common sense, deve avere qualche conseguenza linguistica.

Teodoro Klitsche de la Grange

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(*) Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ).
Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).
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