mercoledì 1 settembre 2010

L’anticapitalismo e i suoi amici




In Italia,  media e politica ormai si  occupano  di altre cose: tangenti, veline, cricche … E così  quando in Francia nel febbraio 2009, dalle ceneri della Lega comunista Rivoluzionaria, è  nato il  Nouveau Parti Anticapitaliste  ( Nuovo Partito Anticapitalista),  nessuno se ne è accorto.  Né  ci si è soffermati sul  milione di voti circa  preso dal NPA all’europee dello stesso anno. Si tratta  di  un partito popolato di  ex comunisti, socialisti arrabbiati, femministe, ecologisti e  altri   nemici giurati del riformismo, nonché  votato  da elettori  che  credono nella favola,   citiamo dalla carta fondativa,  di  ”un socialisme du 21e siècle, démocratique, écologique et féministe”  (http://www.npa2009.org/node/24 ).
Il buon Antonio Rosmini  che non amava molto i partiti,  perché -   sosteneva  -  difendono solo  la parte (il bene particolare)  mai  il tutto (il bene comune),  se tornasse tra noi,  non approverebbe sicuramente  un partito  orgoglioso, se non addirittura tronfio,  di  voler  difendere “una parte”   (gli anticapitalisti),  contro il “tutto”  (il capitalismo), che, piaccia  o meno,  pare essere  gradito ai più.    
Piccola precisazione. Mai confondere il  riformismo con l’anticapitalismo.  Dal momento che il  riformismo  è  un tentativo  “di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai”, per riportare le parole di Lenin, a sua volta però nemico giurato di qualsiasi riforma sociale.  Ciò vuol dire che  il  capitalismo -  e torniamo alla questione del “tutto” -   non può essere ricondotto solo alla famiglia Agnelli, ma ai tanti, forse talvolta troppi, che sono giustamente convinti  che  un  “socialisme  du 21e siècle ”,  per parafrasare un fior di riformista  come Filippo Turati, sarebbe  capace solo di moltiplicare per tre fame e  miseria. Insomma, la stragrande maggioranza delle persone (grosso modo, “il tutto”), vuole riforme non rivoluzioni: dà torto a Lenin. Certo, per poi dividersi secondo le proprie preferenze politiche,  conservatrici o progressiste. Detto in pillole:  la famigerata “gggeeente”,  ed è una specie di plebiscito quotidiano, accetta  questo  “sistema economico”,  non  è “anti”,  ma pro-capitalismo.           
Del resto come scriveva profeticamente Victor Hugo, ne   I Miserabili, “ a torto si è voluto fare della borghesia una classe. La borghesia è semplicemente la parte soddisfatta del popolo. Il borghese è l’uomo seduto. Una sedia non è una casta”. O detto altrimenti:  la società borghese-capitalistica, rispetto ad altre società storiche,  è  mobile. Di qui la sua grandezza ( tutti possono diventare borghesi),  ma anche la sua miseria ( tutti possono cessare di esserlo oppure non divenirlo mai). Certo, una sfida.  Ma unica nel suo genere,  e  che perciò  va accettata.     
Sulle origini psicologiche dell’anticapitalismo circolano  le tesi  più diverse: invidia sociale, risentimento, ambizioni frustrate. Resta invece meno studiato l’anticapitalismo ideologico, tuttora vivace, come in Francia.
Va detto che esiste anche un  anticapitalismo di  origine terzomondista, si pensi al regime di Chávez che manda in brodo di giuggiole gli “anticapitalisti al caviale”.  Non vogliamo qui però parlare di militari corpulenti, bensì  delle  varie forme  in cui l’anticapitalismo ideologico si suddivide.
Innanzitutto, va  sottolineato che esistono due “grandi famiglie” a destra come a sinistra.
L’anticapitalismo di destra, può essere reazionario e conservatore.
L’anticapitalismo di sinistra, marxista e anarchico. Vanno infine ricordate altre tre forme di anticapitalismo: cattolico, fascista e decrescista-ecologista. Riassumendo: due “famiglie”, sette tipologie.
Il comune denominatore è nel rifiuto della riduzione di ogni relazione umana a puro scambio economico:   un economicismo a sfondo utilitaristico che viene imputato al capitalismo.  Ovviamente, con alcune differenze di contenuti politici e sociali.
L’anticapitalismo reazionario oppone al capitalismo la società aristocratica ed eroica che sacrifica agli dei della città; l’anticapitalismo conservatore celebra invece i “sacri valori” del “Dio, Patria e Famiglia;  gli anticapitalismi marxista e anarchico, pur differendo nei mezzi (organizzazione ferrea contro libero spontaneismo), condividono il  fine: la società collettivista priva di qualsiasi gerarchia; l’anticapitalismo cattolico punta sulla società organica cristianamente ispirata; l’anticapitalismo fascista sulla società corporativa imperniata sui bisogni dello stato-nazione o della comunità razziale (come nel caso della variante interna nazionalsocialista); infine, l’anticapitalismo decrescista-ecologista oppone al capitalismo la società della sobrietà e del “piccolo e bello”.
Naturalmente, sul piano storico, fra i diversi anticapitalismi possono nascere alleanze più o meno temporanee. Ad esempio, l’ organicismo cattolico può condividere un tratto di strada con il corporativismo fascista, con il nazionalismo conservatore, con l’aristocraticismo reazionario. Come, a suo volta,  l’anticapitalismo decrescista-ecologista, sulla base “del piccolo e bello”, può trovare punti di contatto con la visione libertaria di un anarchismo basato sullo sviluppo di micro-comunità solidali. Meno assimilabile per tutti gli schieramenti (dai reazionari  agli anarchici) resta invece l’anticapitalismo marxista: la cui rigida teoria economica e sociale  può essere manipolata solo da chi ne condivide, quasi come una fede,  i presupposti “scientifici” e “dialettici”.
L’argomento forte del capitalismo è che  il mercato crea e distribuisce ricchezza, mentre l’anticapitalismo finora ha prodotto e ridistribuito solo  miseria.
In effetti,  nonostante la meritata rinomanza negativa del neoliberismo  e il fatto che la ricchezza capitalistica spesso sia distribuita in modo imperfetto (di qui però l’importanza del riformismo di cui sopra),  rimane difficile, almeno per ora,  provare il contrario. Del resto  il pessimo funzionamento dell’ economia sovietica non depone certo a favore dei “nemici del capitale”   
E così, nella minoranze anticapitaliste,  l’ “impossibilità della prova” si è tramutata in odio inestinguibile. E di conseguenza, in   un’ incapacità di “produrre” pensiero  se non nei termini di pietose recriminazioni,  odiose scomuniche, esplosioni di violenza frutto di pericolose illusioni. Magari, solo per aver  creduto  di scorgere, per l’ennesima volta,  nel più lieve segnale economico, scambiando così  la nuvoletta per il temporale, l’arrivo della “crisi finale”.
Siamo perciò davanti a un atteggiamento privo di sano realismo politico,  che  spesso rischia di sconfinare nel ridicolo.
Facciamo un esempio: come conciliare decrescita e pacifismo? Si sospende anche la crescita dell’industria militare? E poi come ci si può difendere dai “non decrescisti” armati fino ai denti?
Massì, di colpo tutti diventeranno mansueti come agnelli...
Battute a parte,  se le cose stanno così,  perché  “aizzare le folle” contro “il sistema”, senza avere alcuna seria ricetta di ricambio.
Il che prova, purtroppo,  che dove prolifera l’odio latita l’ immaginazione.
Certo, i “Tartari” un giorno arriveranno. Nessun sistema socio-economico può vivere in eterno. Ma per ora il contributo delle lunatic fringes anticapitaliste all’ edificazione di una futura società post-capitalista è nullo. Infatti, passato il tempo dei “distintivi” (comunisti e fascisti) che cosa resta?  Solo le “chiacchiere” dei  decrescisti.  Poveri noi.

Carlo Gambescia

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