mercoledì 28 aprile 2010

Grecia 
Un test di stabilità (per tutti)

 
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La questione greca è interessante come test per misurare la stabilità e la capacità sociologicamente "adattive" dei sistemi politici ed economici contemporanei, in particolare di quello europeo-occidentale.
Ora, stante la serietà della crisi greca e la possibilità "di contagio", quel che stupisce è la fermezza delle riposte politiche ad alto livello. Che può essere così riassunta: “Greci, se volete salvarvi, dovete fare ordini nei vostri conti pubblici e quindi fare sacrifici, tagliando il welfare”.
Ora una scelta di questo tipo, che implica un fallimento in “stile Argentina” della Grecia, può essere spiegata, o con l’assoluta stupidità dell’Europa e delle istituzioni internazionali dedite a una specie di “cupio dissolvi”, o con l’assoluta sicurezza dell’establishment politico ed economico di poter tener sotto controllo la situazione, anche con la forza, o comunque isolando la protesta.
Propendiamo per la seconda ipotesi, ma come si vedrà in modo non rigido. E per una semplice ragione: i governi sanno di non avere davanti alcun movimento organizzato sul “tipo ideale” del partito rivoluzionario. Come sanno della totale assenza di collegamenti tra possibili movimenti rivoluzionari e potenze straniere, come nel caso classico del comunismo sovietizzato. Di conseguenza i governi reagiscono con la stessa fermezza dell ’establishment ottocentesco davanti alle pressioni, altrettanto scomposte, di anarchici e socialisti. In una parola: repressione. Ovviamente modulandone l’intensità in base alla dolciastra retorica politica oggi dominante, alle notevoli tecnologie biopolitiche di cui gli "apparati" dispongono, nonché alla qualità e composizione della protesta sociale.
Anche perché - dato sociologicamente fondamentale - le varie forze sociali (magistratura, polizia, esercito, associazioni economiche, imprenditoriali e sindacali, media, intellettuali) mostrano di non essere divise sull’ idea di fondo di una società fondata sul mercato.
Pertanto lo sbocco finale può essere rappresentato da un capitalismo autoritario e poliziesco. Che magari ritorni a macinare profitti non per sempre, ma per un buon numero decenni. Infatti lo sfaldamento sociale, a fronte della fedeltà al sistema delle principali istituzioni, da solo non può bastare. Perché il cambiamento socioeconomico, di regola, si basa su forze organizzate “socioculturalmente”: parliamo di istituzioni che si oppongano, o conquistandole o cambiandole dall’interno, ad altre istituzioni. Pertanto i processi di decomposizione e riorganizzazione sociale, oltre al possibile sbocco autoritario o regressivo, possono assumere forma e direzione sia rivoluzionaria, sia riformista. Oppure gravitare per decenni tra le varie forme. Va poi detto, che il capitalismo, a differenza di altri sistemi storici, ha mostrato straordinarie capacità di adattamento, reversibilità e trasformazione.
Il che rende difficile prevedere con esattezza quel che accadrà nei prossimi decenni. 

Carlo Gambescia

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