mercoledì 3 marzo 2010


Né decrescisti né mercatisti
 Juste-milieu


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Tra settari non ci si intende. E’ quel che abbiamo pensato leggendo l’ attacco di Carlo Lottieri a Serge Latouche, apparso su “il Giornale”(http://www.ilgiornale.it/cultura/una_decrescita_serena_stile_latouche_si_tornare_barbari/14-02-2010/articolo-id=421757-page=1-comments=1. ).
In sintesi: per Lottieri, libertarian italiano, il mercato è un benigno ordine naturale; per Latouche, che si considera altrettanto libertario, il mercato invece è un maligno campo minato che non riconosce pensioni d’invalidità. Per Lottieri la crescita economica è sacra, per Latouche, un feticcio da bruciare. Ovviamente Lottieri, se interpellato, rifiuterebbe di considerare un libertario l’Attila decrescista Latouche. Ma quest’ultimo, a sua volta, potrebbe giudicare Lottieri un Conan mercatista.
Invece un tradizionalista, dall’alto del suo tappeto volante trans-storico, parlerebbe subito di frutti velenosi della modernità: dal momento che Lottieri e Latouche puntano tutti e due sulla liberazione “esteriore” e materiale dell’individuo: Lottieri, attraverso il mercato, Latouche attraverso la decrescita. Con una controindicazione però: che, appena detto questo, il tradizionalista innesterebbe la marcia indietro verso la società castale.
In realtà, siamo davanti a un vero rompicapo filosofico, politico e sociologico. Una questione che può essere condensata così: l’uomo può essere costretto a diventare libero?
Secondo Lottieri il problema non sussiste, perché l’uomo nasce e resta libero: basta “lasciarlo fare” come un qualsiasi imprenditore economico di se stesso. Invece per Latouche, l’uomo nasce libero ma poi il capitalismo lo incatena. Di qui la necessità di liberarlo dai ceppi e di ri-educarlo alla libertà. Il che spiega quale sia la radice ultima del contrasto sulla libertà tra Lottieri e Latouche: per il primo l’uomo è un autodidatta, per il secondo ha bisogno di scuole e maestri.
Ora, dal punto di vista concreto della politica sociale in cosa rischiano di sfociare le due posizioni?
Presto detto. Quella di Lottieri nella privatizzazione perfino dell’arma dei carabinieri. Mentre quella di Latouche in un socialismo autoritario di marca noglobalista.
Perciò il vero problema è come trovare un punto di equilibrio tra libertà e protezione sociale. Dal momento che se ci si arrocca sulle posizioni settarie di Lottieri o di Latouche non se ne esce.
Prendiamo, ad esempio, la questione del libero mercato. Ora, alcuni secoli di capitalismo mostrano che la libertà economica produce buoni risultati in chiave di crescita e benessere diffuso. Ma provano pure che alla mano invisibile del mercato deve affiancarsi quella visibile dello stato. E non è una questione solo economica, ma sociologica, ossia di consenso sociale. Lo stato, richiamandosi al patto hobbesiano, offre con il welfare quella protezione sociale, che consente un’obbedienza politica, estesa alle regole del mercato. Di conseguenza, pur condannando gli sprechi “statalisti” (che vanno contrastati), più si privatizza, più si minano le basi del consenso sociale. O comunque, oltre un certo limite, si rischia di distruggere, per dirla con Karl Polanyi, la sostanza umana e morale della società. E dunque di svuotare il serbatoio di quella stessa creatività che ha permesso al capitalismo di svilupparsi.
Ciò che sfugge, al pensiero libertarian è che se si fosse lasciata mano libera al mercato, le previsioni di Marx, si sarebbero avverate. Mentre una saggia legislazione sociale e un aumento del potere d’acquisto dei salari, dovuto certo alla crescita produttivo-tecnologica ma anche all’operato del sindacato, hanno impedito la famigerata “proletarizzazione” e la conseguente caduta del saggio di profitto. Sono osservazioni banali. Che tuttavia i libertarians non sembrano capire, dal momento che in ultima istanza mostrano di credere nel più brutale darwinismo sociale. Per dirla fuori dai denti: la libertà è bellissima, ma non può essere quella della jungla. O del “vecchio west”, come talvolta ama scrivere Lottieri.
Ma ce n’é per tutti. Prendiamo, ad esempio, la questione “decrescista”. Ora, è vero come sostengono Latouche & Co. che il capitalismo nella sua marcia, apparentemente inarrestabile, ha condizionato l’individuo al consumo e danneggiato l’ambiente. Ma puntare sulla “decondizionalizzazione” obbligatoria delle persone - e qui Lottieri ha ragione - e sul blocco produttivo è pura follia. Anche perché, agendo in questo modo, si corre il rischio di trasformare la società in una gigantesca caserma. In qualcosa che forse è addirittura peggio delle jungla libertarian.
Il vero punto della questione decrescita è che le trasformazioni sociali non sono mai automatiche. Hanno sempre natura politica, e la politica è decisione, e la decisione è fonte di conflitto. Serve, insomma, come nel caso del mercato, una “mano visibile”. E qui però si apre un altro problema: come convincere “pacificamente” le fasce più “ricche” della popolazione a consumare di meno? E come comportarsi con i “renitenti”.


Non è un problema da poco, perché riguarda le radici stesse della democrazia. Latouche, ad esempio, parla in modo generico di un “percorso morbido” che possa aiutare le fasce agiate, benestanti e ricche della popolazione a comprendere il valore della sobrietà e al tempo stesso, capace di introdurre per gradi le riforme “giuste”, senza dover innalzare la bandiera rossa della “rivoluzione sociale”. Ma siamo proprio sicuri che i consumatori impenitenti si lascino convincere senza reagire? E che politici, non sempre limpidi, riescano a difendere i valori democratici? Restiamo in attesa di risposte convincenti.
In alternativa, non pensiamo però al rilancio dello “sviluppo sostenibile”, spesso usato in modo gattopardesco dai fautori della crescita economica a ogni costo. Ma a qualcosa di diverso, magari da reinventare. Ad esempio, perché non valorizzare la classica distinzione introdotta da François Perroux tra crescita economica e sviluppo ( si veda L’économie du XXéme siècle, Puf 1964) ?
L’ economista francese, scomparso nel 1987, per crescita intendeva la crescita economica (quella del Pil, ora giustamente criticata dai teorici delle decrescita), e per sviluppo, lo sviluppo morale e culturale dell’individuo: l’unico fattore capace a suo avviso di indicare il grado di progresso sociale realmente conseguito nel campo delle libertà civili. Ora, secondo Perroux, senza crescita economica non c’è progresso civile, e viceversa: i due fattori procedono insieme. Per contro, i teorici della decrescita credono realizzabile il progresso civile senza la crescita economica. Il che è falso, come dimostra la caduta sovietica e come proverà, prima o poi, anche la controversa esperienza cinese.
Perciò la vera questione non è cessare di crescere per sempre, ma trovare il giusto punto di equilibrio tra il Pil economico e il Pil culturale e civile, auspicato da Perroux. Anche perché non è detto che una società libera, civilmente progredita non possa in futuro autolimitare, in modo ragionato e democratico, certi consumi e favorirne altri, più socialmente importanti. E quindi (perché no?) decrescere.
Insomma, sono decisioni che non si possono affidare solo al mercato, serve la politica. E qui sappiamo che Lottieri storcerà il naso, accusandoci di bieco riformismo socialdemocratico... E Latouche, magari, di servilismo verso il capitalismo...
Ma riusciremo a sopravvivere lo stesso.  
Carlo Gambescia

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