lunedì 15 febbraio 2010

Un commento di Gianfranco de Turris 

su "Avatar e i Balilla del XXI secolo..."



Pubblichiamo con piacere il commento dell'amico Gianfranco de Turris, giornalista e scrittore, al nostro post "Avatar e i Balilla del XXI secolo..." : http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2010/02/avatar-e-i-balilla-del-xxi-secolo.html . Già apparso, come la nota di Gianfranco de Turris, sul quotidiano "Linea".
Ovviamente, ci riserviamo di tornare sull'argomento nei prossimi giorni (C.G.).

Carlo Gambescia è un sociologo politico e da questo punto di vista effettua soprattutto le sue analisi, spessissimo condivisibili, ma non è questo l’unico modo, ad esempio, di affrontare l’interpretazione del mito come ha fatto su "Linea" del 31 gennaio, polemizzando col "Secolo d’Italia" a proposito di alcuni film come Il gladiatore, 300 e da ultimo Avatar. Gambescia, infatti, ha per riferimento come il mito (ad esempio quello dello sciopero generale) è visto da Georges Sorel, cioè il mito in chiave politica, il mito come “idea-forza”. Si è preoccupato quindi, così ho interpretato il suo articolo, di possibili pericoli per la liberaldemocrazia se effettivamente i “miti” rappresentati da questi film dovessero/potessero essere trasferiti in “azione” come farebbero intendere gli articoli del Secolo e come avvenne negli anni Trenta da parte di fascismo e nazionalsocialismo. In effetti, c’è un controsenso, considerando le recenti posizioni assunte dal "Secolo d’Italia" e dalla Fondazione Farefuturo, cioè da quelli che da un po’ si definiscono i finiani, vale a dire posizioni apertamente “antifasciste” e iperdemocratiche: quindi riferirsi al mito in quanto “totalitario” appare contraddittorio.
Sarà anche così ma, a mio parere, non è questo il modo in cui si deve intendere il mito o i miti che possono essere riscontrati nei film citati, ma anche in molti altri, da 2001 a Guerre stellari, da Matrix al Signore degli Anelli e così via. Non certo ad un mito politico-sociologico alla Sorel si deve fare riferimento, ma al mito così come è stato decifrato, spiegato e rivalutato da tutta da serie di altri studiosi e altre personalità: dai pensatori tradizionalisti come Guénon, Evola e Coomaraswamy, a storici delle religioni come Eliade e Kerényi, a mitografi come Campbell, il quale parlava esattamente di “mito in azione” (alle sue idee si rifece Lucas quando pensò alla saga di Guerre stellari). E Michel Maffesoli ad essi credo pensasse quando ha parlato del mito contenuto in Avatar in un articolo pubblicato da "Il Giornale". Pur trattandosi di “pappine di Hollywood” essi portano un contributo alla riscoperta del mito, così come sopra descritto, nel deserto secolarizzato del mondo moderno.
Il mito per tutti costoro è una “storia sacra delle origini” che ha fondato il mondo primordiale e si è perpetuato, per degradazione ma senza scomparire quanto piuttosto mimetizzandosi, sino a noi. Sino a noi ha portato degli idealtipi, o archetipi alla Jung, o forme simboliche tradizionali, che non possono mai scomparire, che sono necessari alla psiche del’uomo e che certe opere narrative o cinematografiche, in genere fantastiche ma anche storiche, fanno rivivere. Ecco il senso proprio da dare ai miti primigeni ripresentati, spesso senza volerlo da tutti i film citati.
E si tratta di un “mito in azione” perché – appunto – rivive in tempi moderni e si incarna in forme adatte ai tempi attraverso specifiche figure (l’Eroe per dirne una) o situazioni (la Cerca per dirne un’altra) che sono qualcosa che vanno oltre l’immagine esclusivamente sociologico-politica, a mio parere riduttiva se interpretata solo come unica possibile. Di certo, fascismo e nazionalsocialismo fecero riferimento a miti specifici, spesso epidermicamente senza approfondirli, ma la leva del mito influenzò quelle generazioni, pur se superficiale, come la polemica evoliana contro il modo ufficiale di intendere la “romanità” durante il Ventennio dimostra e chiarisce.
Non so, né in fondo mi interessa, come i finiani intendano il mito e se lo intendano in modo contraddittorio rispetto al nuovo corso della Destra Nuova alla Campi, alla Mellone e alla Rossi. Quel che intendo dire è che, viceversa, non c’è da preoccuparsi se per certi film o romanzi si riparla felicemente di mito e di “mito in azione”. Perché mentre il mito “politico” può forse avere un esisto esteriore, il mito-mito ha un esito interiore: e se il primo può giungere sino alla “mobilitazione delle masse”, il secondo provoca, potremmo dire, una mobilitazione dello spirito, dell’Io più profondo. Cosa indispensabile per sopravvivere al mondo odierno disanimato e artificiale.
Certamente “in un contesto democratico, divertentistico e relativistico” ci sono anche troppi miti fasulli, che durano lo spazio di un mattino (non so quante volte l’ho scritto) e soprattutto sono strumentalizzati non solo dalla politica ma anche dai media: ma sono miti – appunto – della modernità. Quelli delle origini, quelli archetipici non cadranno né scompariranno mai con buona pace della democrazia. E possono essere trasmessi anche dalla cultura popolare: sicché alla interpretazione puramente sociologica della Farinotti, citata da Gambescia, preferisco quelle di un Maffesoli, a mio giudizio più autorevole e più profondo. Anche qui, il modo di affrontare il tema può essere diverso.
Altrimenti ci si mette sulla stessa scia dei critici progressivi e de sinistra che da decenni scrivano cose indecenti contro l’analisi mitico-simbolica di Tolkien in particolare e della narrativa fantasy in generale. Oppure sul piano di un Furio Jesi che ha impiegato la sua breve vita a denunciare la “tecnicizzazione del mito” operata da fascismo e nazismo (mai però dal comunismo), per demonizzarlo e mettere in guardia dalla sua rivalutazione moderna alienandosi così l’amicizia di Kereéyi con cui era in corrispondenza. Mi dispiacerebbe che Gambescia fosse ostile al ritorno del mito in quanto se collegato ad una metafisica “rischia sempre di trasformarsi in una miscela esplosiva, secondo quando spiega Vierek e lui riporta.
Insomma, non c’è soltanto l’interpretazione sociologico-politica del mito, ma anche un’altra che ne valorizza le espressioni attuali pur se ben camuffate. Sicché invece di “ripartire da Sorel” ripartiamo da Eliade, da Campbell e, perché no, da Evola.
Gianfranco de Turris
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