lunedì 22 febbraio 2010

RE-Replica a Gianfranco de Turris 
Ancora sul mito...


Pubblichiamo la nostra replica all'articolo di Gianfranco de Turris, uscito lunedì scorso sul blog: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2010/02/un-commento-di-gianfranco-de-turris-su.html
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Innanzitutto ringraziamo Gianfranco de Turris del commento al nostro post su “ I Balilla del XXI secolo”. E per due precise ragioni. Una di metodo e una di contenuti.
Di metodo. De Turris è uno dei pochi che legge ancora quel che scrivono gli altri. E con rispetto: perché, al contrario del mucchio selvaggio (e presuntuoso) di Fare Futuro & Co., non crede di essere preventivamente dalla parte della ragione. E l’umiltà intellettuale è precondizione alla conoscenza.
Di contenuti. Perché de Turris, da colto studioso di letteratura fantasy (e non solo), pone un problema fondamentale: quello della compatibilità (o meno) tra mito e democrazia moderna.
Torna perciò utile rileggere almeno un passo del suo intervento:

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“Certamente in un ‘contesto democratico, divertentistico e relativistico’ ci sono anche troppi miti fasulli, che durano lo spazio di un mattino (non so quante volte l’ho scritto) e soprattutto sono strumentalizzati non solo dalla politica ma anche dai media: ma sono miti - appunto – ‘della modernità’. Quelli delle origini, quelli archetipici non cadranno né scompariranno mai con buona pace della democrazia. E possono essere trasmessi anche dalla cultura popolare: sicché alla interpretazione puramente sociologica della Farinotti, citata da Gambescia, preferisco quelle di un Maffesoli, a mio giudizio più autorevole e più profondo. Anche qui, il modo di affrontare il tema può essere diverso.Altrimenti ci si mette sulla stessa scia dei critici progressivi e di sinistra che da decenni scrivono cose indecenti contro l’analisi mitico-simbolica di Tolkien in particolare e della narrativa fantasy in generale. Oppure sul piano di un Furio Jesi che ha impiegato la sua breve vita a denunciare la ‘tecnicizzazione del mito’ operata da fascismo e nazismo (mai dal comunismo), per demonizzarlo e mettere in guardia dalla sua rivalutazione moderna alienandosi così l’amicizia di Kerényi con cui era in corrispondenza. Mi dispiacerebbe che Gambescia fosse ostile al ritorno del mito in quanto se collegato ad una metafisica ‘rischia sempre di trasformarsi in una miscela esplosiva’ secondo quando spiega Vierek e lui riporta”.

Ora però, come distinguere tra “miti della modernità” e “miti archetipici”? E soprattutto come individuare il punto di rottura, dopo il quale il mito diventa un pericolo per la democrazia?
Quanto al primo punto, si può dire che l’archetipo, ritorna in forme diverse, perché, di volta in volta, viene storicizzato. E le storicizzazioni risentono dei valori del tempo. Valori che possono essere buoni o cattivi: etici o consumistici. Pertanto i miti moderni sono solo una delle forme storiche, assunte dal modello ideale. Ovviamente, se il mito è consumistico, la colpa non è dell’archetipo. Ma delle strutture sociali ed economiche che lo inglobano e manipolano, come acutamente mostra Luisella Farinotti.
Quanto al secondo punto, se la democrazia liberale moderna è segnata dal rispetto delle minoranze, allora un mito può diventare pericoloso, quando viene usato a mo’ di clava da una maggioranza contro una minoranza. Un pericolo messo in luce anche da Maffesoli, quando interpreta il mysterium tremendum et fascinans delle nuove tribù metropolitane, viste come portatrici sane di messaggi socialmente contraddittori, spesso sospesi tra violenza metafisica e metafisica della violenza. Ma anche, su scala più ampia, da studiosi come Viereck, Cantimori, Lefebvre. Si tratta del rischio insito nella creazione politica del “meta-qualcosa”. Ad esempio il razzismo può diventare una metabiologia, la teoria nazionalista, una metastoria, la teoria archetipica, una metapolitica…
Insomma, quel che vogliamo dire, è che se il rapporto tra democrazia e mito è complicato, la colpa va divisa a metà: tra coloro che “metafisicizzano” la democrazia (magari rivoluzionaria), come Jesi, e coloro che “metafisicizzano” il mito. Entrambi nel senso del “meta-qualcosa”.
Certo non si può neppure escludere a priori che nelle “pappine di Hollywood”, tipo Avatar e compagnia cantante, sia possibile ritrovare, come sembra sostenere de Turris, per un verso il ritorno dell’archetipo e per l’altro la possibilità di innescare, individualmente, in qualche spettatore più evoluto, un processo di crescita interiore. Ma quel che va assolutamente escluso è il condizionamento collettivo, pavloviano, all’action politica. Come invece ritengono i bandoleri stanchi di Fare Futuro & Co., Insomma, non si diventa eroi mimando i guerrieri davanti allo specchio del cinema. Ma lo si diventa sul campo di battaglia, quello vero. Di qui il nostro richiamarci al mito soreliano, che “funzionava” concretamente nelle fabbriche. Altra che multisala…
Certo, il mito va analizzato anche in chiave fenomenologica, come insegnano pur in forme diverse Eliade e Kerényi. Ma la fenomenologia come studio dell’ essenza dei fenomeni mitici va sempre raccordata all’universo storico e sociologico in cui l’evento mitico si manifesta.
Altrimenti il rischio qual è? Quello di trasformare il mito in un modello normativo sulla base del quale poi giudicare tutta la storia umana: di qua l’archetipo, sempre buono, di là le reincarnazioni, lungo una scala che, come a scuola, va dall’insufficiente all’ottimo. E qui sorge un altro problema: il manifestarsi del mito può influire sulla sua essenza?
Quanto libri, come quelli di Tolkien, hanno contribuito a riformulare il mito, all’interno di una società sviluppatasi, per dirla con Del Noce, “dopo” la Rivoluzione Francese? E quindi fondata su un valore non tradizionale come quello di Sua Maestà l’ Égalité ?
Le domande poste non sono secondarie, perché molti, soprattutto a destra, cercano tuttora di ritrovare nelle “manifestazioni” cinematografiche ( i film…) solo quel che c’è di vivo dal punto di vista delle “norma”, o archetipo, e non quel che sia invece vivo sotto il profilo della “manifestazione”, ossia del “fatto sociale” moderno. Di un eroe, tanto per fare un esempio, che oggi lotta in nome dell’eguaglianza… E spesso comportandosi da antieroe… E qui si pensi solo alla figura del Che (cinematografica e non).
Una ricerca, che invece andrebbe affrontata, non tanto in chiave postmoderna (quella della “miracolosa scoperta” dei miti d’oggi, nuovi di zecca) quanto di analisi del mito come impasto di tradizione e modernità, ossia di “essenza” e “manifestazione”. E dunque alla luce delle trasformazioni prodottesi nell’ “essenza- mito” a causa della “manifestazione- modernità egualitaria”.
Certo, si dirà, ma allora perché parlare di archetipi e norme?. Un archetipo deve essere un archetipo, punto e basta. Se la norma cambia nell’essenza, non è più tale.
Ma perché non essere rivoluzionari e conservatori al tempo stesso? Eliade, Campbell, Evola vanno benissimo. Ma perché non affrontare la questione in chiave di modesti concetti operativi, cioè di modelli o forme di mentalità culturale. O se si preferisce di sistemi di idee e di dinamiche storiche e socioculturali?
Probabilmente un po’ di sano relativismo weberiano, e se ci si passa il parolone, di “metodologismo” sorokiniano, non farebbero male a un dibattito che qui, grazie agli intelligenti stimoli dell’amico Gianfranco de Turris, abbiamo appena impostato. E, probabilmente, da umili studiosi di questioni sociologiche.
Purtroppo, caro Gianfranco, nessuno è perfetto.

Carlo Gambescia

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