martedì 21 luglio 2009

Il caso di Luca Bianchini 
Tra conoscenza e virtù





Su Luca Bianchini, il presunto “stupratore seriale" di Roma, dopo la "partenza a razzo" dei media, sembra essere scesa nell'ultima settimana una coltre di silenzio. Perché?
Difficile rispondere. Pare che verrà ripetuta la prova del Dna. In realtà, contro questo trentenne, a dir poco incolore ( e anche questo per i telegiornali, dopo poche ore, era già diventato un gravissimo indizio di colpevolezza) si è applicato il famigerato schema del mostro da "inchiodare" sulla prima pagina.
Schema che viene utilizzato dai media, ignorando la regola (di civiltà) giuridica che non si è colpevoli fino a pronuncia definitiva. Inoltre, nelle redazioni, nessuno si è interrogato sul fatto, che anche in caso di colpevolezza ( per ora si sono addebitati a Bianchini tre stupri), saremmo comunque davanti a una personalità fortemente disturbata. Un uomo, anzi una per-so-na, non da linciare, castrare o rinchiudere in gabbia, ma da curare.
Il comportamento dei media, con la sua ritualità (indicare un capro espiatorio e scavare nel suo passato, per comprovarne la “vera” natura di mostro) è un elemento che indica come i fatti sociali (o le rappresentazioni sociali dei fatti) - in questo caso il “fatto mostro” - abbiano consistenza propria. Ormai, a prescindere dalla sua colpevolezza o meno, esiste il “Mostro Bianchini” (e qui si potrebbe risalire fino al famigerato caso Girolimoni...).
Il che rinvia a un fatto sociologico più profondo. Quale? La necessità sociale e ciclica di trovare un capro espiatorio. La cui figura di "colpevole perfetto" svolge una funzione di continuità identitaria e di rassicurazione simbolica. I gruppi sociali - semplificando - per sentirsi vivi, hanno la necessità di designare un nemico: dal “mostro quotidiano” ai “mostri incappucciati” che deciderebbero i destini del mondo.
E Bianchini, colpevole o meno, è finito negli ingranaggi di una macchina che pare non avere pietà di nessuno.
Infine, tutta la vicenda pone una questione più sottile. Quella del problema morale e sociologico del rapporto tra virtù e conoscenza, per usare una terminologia alta. Nel senso che i politici, i magistrati e i giornalisti, o comunque coloro che sono dotati di una conoscenza superiore alla media dei meccanismi sociali, di regola, non fanno nulla per evitare la “caccia al mostro”.
Finora nel caso Bianchini, soprattutto politici e giornalisti, probabilmente grazie alle solite "imbeccate", hanno dato il peggio di se stessi.
Il che significa, che la conoscenza dei fatti sociali, ovvero del rischio ciclico - accertato sociologicamente - di trasformare una persona innocente in capro espiatorio, non collima con la virtù, ossia con la disposizione, che pur esiste nell’uomo, a perseguire e praticare il bene, e dunque a fare il possibile perché nessuno possa soffrire ingiustamente: dal presunto colpevole alle vittime innocenti.
Ma questa, probabilmente, è un'altra storia. O no?

Carlo Gambescia

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