mercoledì 22 aprile 2009

Un approccio sociologico
La società italiana e il 25 aprile



E’ sociologicamente interessante come la società italiana segua con disinteresse le ricorrenti polemiche sul 25 aprile.
In realtà, non è così facile interrogarsi sul perché del disinteresse verso il 25 aprile, da sempre vissuto dalla gente comune come pura e semplice occasione per “fare ponte”.
Una ragione però ci sarebbe. La storia istituzionale italiana è breve, risale al 1861. Il che significa, visto il disinteresse per una celebrazione nazionale, che esiste l’Italia ma non esistono tuttora gli Italiani. Certo, la storia culturale è molto lunga. C’è addirittura chi la fa risalire al mondo romano. Ma questa è un'altra storia.
Diciamo soltanto che intorno alla nascita dello stato unitario (dando per scontata la “necessità” storica di questa forma istituzionale e geopolitica, cosa sulla quale non tutti sono d’accordo), si sono consolidate e contrastate varie tradizioni politiche fondate su interpretazioni opposte circa le origini culturali della storia d’Italia. E che discutere di tali tradizioni ci porterebbe troppo lontano.
In realtà quel che qui interessa è che l’Italia politica, storicamente, inizia nel 1861. E che la sua breve storia “unitaria” (148 anni) ha visto succedersi due forme di stato (monarchia, 61 anni, e repubblica, 63 anni ) e tre differenti regimi politici (liberale-rappresentativo ristretto, 61 anni; democratico-rappresentativo allargato, 61 anni; dittatoriale, 23 anni). Grosso modo, sotto quest’ultimo aspetto, il regime dittatoriale (sviluppatosi all’interno di una forma-stato monarchica), rappresenta in termini di durata storica (23 anni, considerata anche la Repubblica Sociale), un periodo abbastanza breve. Ma storicamente incisivo, dal momento che la fase dittatoriale si è intersecata con due guerre e una rivoluzione mondiale, quella russa: fatti che hanno inciso profondamente sui contenuti degli schieramenti politici (si pensi solo alla dicotomia fascismo-antifascismo). E che hanno lasciato ferite ancora aperte all’interno delle classi dirigenti politiche.
Ferite, invece, meno avvertite nel resto della società. E per una ragione molto semplice: la società italiana, a causa del tardivo conseguimento dell’unità politica e del frenetico alternarsi di forme di stato e regimi diversi, ha continuato e continua a scorgere nel potere politico un fattore estraneo, se non in ragione di esigenze primarie come la sicurezza sociale e la tutela dell’ordine pubblico e della proprietà.
E qui ricordiamo che la “Guerra Civile” e/o Resistenza fu sentita da pochi: da alcune centinaia di migliaia di italiani in tutto ( dell’una e dell’altra sponda). Il resto della società italiana rimase alla finestra.

Ora, è vero che la storia è fatta dalle minoranze, ma è altrettanto vero, che queste minoranze devono servirsi di una “formula politica” in qualche modo condivisa (per persuasione, per mimesi, per timore) dalle maggioranze. E, di conseguenza, se le maggioranze continuano a sentirsi estranee non solo al 25 aprile ma alla stessa storia d'Italia (dal 1861) come rappresentazione condivisa, evidentemente, qualcosa non deve tuttora "funzionare" o nella élite, o nella formula politica, o nei processi di socializzazione politica.
Diciamo pure che il senso di estraneità prepolitica della società (da non confondere con le varie forme dell’antipolitica, spesso strumentalizzate dalla politica), ha rappresentato la costante della storia unitaria italiana. Di qui quella frattura fra élite politiche “mediamente” divise e poco responsabili da una parte, e il resto della società dall’altra. I veri esuli in patria sono quegli Italiani (una maggioranza) che in un secolo e mezzo non si sono mai sentiti Italiani...
Il vero problema perciò è come ricomporre questa frattura: di fare gli Italiani. E non quello di celebrare o meno "elitisticamente" il 25 aprile, riunendo in piazza fazioni politiche di destra e sinistra votate a rappresentare soltanto se stesse.

Carlo Gambescia 

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