lunedì 28 aprile 2008

Europa e Stati Uniti

Alle origini delle differenze





Qual è il fattore di fondo che ha differenziato lo sviluppo storico e politico americano da quello europeo? In molti si sono interrogati da Tocqueville a Marx, da Maritain a Molnar. E tutti, pur partendo da posizioni diverse, hanno ricondotto la diversità americana a un preciso fattore storico: l’assenza di feudalesimo, dello stato assoluto e delle altre istituzioni di ancien régime.
E qui vale la pena di ricordare un libro dello storico Louis Hartz, scritto negli anni Cinquanta del Novecento, proprio per documentare e comprovare questa tesi. Il succo di The Liberal Tradition in America (testo tradotto da Feltrinelli nel 1960, e mai più ristampato) è questo: il feudalesimo e lo stato assoluto hanno prodotto e difeso in Europa ingiusti privilegi, che a loro volta, hanno provocato rivoluzioni, giacobinismo, socialismo, e poi un bieco conservatorismo che non ha assolutamente giovato all’ordine sociale, perché è sfociato per reazione nel fascismo, nel comunismo e in due guerre mondiali. Per contro il “non feudalesimo” avrebbe prodotto in America una società di individui eguali e un liberalismo naturale, spontaneo, frutto di buon senso, che ha garantito libertà, progresso, crescita economica e ordine sociale.
Hartz, era un grande semplificatore (alcuni critici, ancora oggi, lo ritengono addirittura un fantasioso ideologo mancato: una specie di Oriani americano…) . Ma la tesi del “non feudalesimo” americano, che ha una sua consistenza almeno “cronologica” e un esercito di influenti sostenitori, non va sottovalutata, soprattutto sotto l’aspetto ideologico e storico. Vediamo perché.
In primo luogo, la consapevolezza ideologica di avere creato una società di individui eguali (esistente o meno, qui non importa), ha spinto l’America a considerare come arretrate e ingiuste tutte le società non ritenute all’altezza dei suoi standard culturali, tutti basati su valori individualistici ed egualitari. Di qui però è scaturita l’incomprensione statunitense di eventi piuttosto complessi : il ruolo giocato dalla Chiesa Cattolica nel medioevo; la funzione storica delle aristocrazie europee; e da ultimo, l’influenza esercitata dalla religione islamica nel mondo arabo come elemento identitario, e non come fattore puramente folcloristico o terroristico.
In secondo luogo, questa consapevolezza ha prodotto sul piano storico, la volontà di “esportare”, o meglio di imporre a tutto il mondo il modello Usa di vita sociale. “Siamo i migliori, perché non dovremmo farlo?”: ecco l‘espressione preferita dai politici americani, quando si rivolgono ai propri elettori per giustificare la politica estera bellicista. Alcuni analisti hanno scorto in ciò addirittura un sostrato religioso dai forti accenti messianici: il popolo americano come il nuovo popolo, di individui eguali, eletto da Dio. Comunque sia, il calore (e a volte anche lo stupefacente candore) con cui presidenti di orientamento diverso come Clinton o Bush difendono i valori americani, è sicuramente di origine religiosa, o per dirla con Costanzo Preve, di natura “ideocratica”: termine che indica una specie di religione secolarizzata, con una sola idea-guida, America First.
Dovrebbe perciò ora essere chiaro, su quale potente idea-forza sia stato costruito il “secolo americano” (tutto il Novecento ed oltre…). Messo così, il rapporto tra Europa e Stati Uniti , ricorda, soprattutto sul piano culturale e ideologico, quello hegeliano tra servo e signore. Infatti se si accetta la visione americana del “popolo eletto“, e molti in Europa hanno da tempo sposato supinamente tale tesi, ci si pone subito in una posizione di inferiorità. E lo si scopre appena si prova a contestare qualsiasi scelta politica o economica Usa: subito scatta l’accusa (spesso primo gradino di una pericolosa escalation) di non capire il senso degli eventi, di essere nemici del progresso storico, ovviamente incarnato dai valori americani, e soprattutto (ecco che il cerchio si chiude) di essere difensori di un aristocratico “tribalismo premoderno“: in una parola feudale.
Per contro, più si indica nella società americana e nelle sue articolazioni sociali (che poi egualitarie non sono, ma questa è un’altra storia…) il mondo del futuro, tutto latte e miele, più lo squilibrio culturale e persuasivo cresce. Perché non è facile convincere la gente del contrario. Il secolo è americano, soprattutto perché gli Stati Uniti, e in particolare la sua industria dell’intrattenimento ( cinema, editoria, musica, televisione) hanno conquistato l’immaginario collettivo. E non è semplice persuadere milioni di spettatori che dietro le star del rock e di Hollywood c’è una società che crede solo nel dio dollaro, e poco tenera verso deboli e poveri.
Perciò una buona battaglia, anche se apparentemente di minor rilievo, può essere quella di limitare o sostituire ai “prodotti culturali” made in Usa (film, serial, programmi musicali, libri, ecc.), opere di autori e registi europei, come ad esempio si tenta di fare in Francia. E qui purtroppo sorge un problema di tipo politico: le classi dirigenti europee e americane hanno formazione e frequentazioni simili . Molti economisti, funzionari di livello, operatori economici, e spesso anche uomini politici si sono formati nelle università americane: conoscono e frequentano gli stessi ambienti dei “colleghi” americani. E praticamente parlano la stessa lingua del ”popolo eletto”, perfino all’interno di quella che una volta si chiamava la stanza dei bottoni.
Certo, non va sottovalutato il ruolo di una possibile e auspicabile “controideologia”. Ovviamente, non basata sulla rivalutazione acritica del medioevo europeo e sul confronto inventato tra un “vecchio” popolo eletto (quello europeo), e un “nuovo” popolo eletto (quello americano): sarebbe ridicolo. Anche perché l’Europa ha comunque altre magnifiche e “moderne” carte da giocare: si pensi ai valori della socialità racchiusi nell’idea europea di diritti sociali, oppure al principio di sussidiarietà, difeso non solo dalla Chiesa, ma anche da pensatori, mai stati in sintonia col cattolicesimo, come Proudhon. Ma il punto purtroppo è un altro, e non è materia di articoli, ma di vita: ci sono ancora uomini (politici e non) disposti ad ascoltare, capire e agire?

Carlo Gambescia 

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