lunedì 18 dicembre 2006


Il caso Welby
Lasciarli morire, tutti?



Quel che sta accadendo a proposito di Piergiorgio Welby suggerisce alcune riflessioni.
Partiamo da due constatazioni.
In primo luogo, la nostra società nega e nasconde la morte. Ai bambini si spiega che i nonni spariscono tra i fiori. I malati terminali spesso muoiono, isolati dal mondo, in apposite strutture ospedaliere. L’anzianità e la vecchiaia, ancora nell’’Ottocento, erano vissute come graduale preparazione alla morte, mentre oggi sono negate in nome di un ridicolo “giovanilismo eternista”. L’uomo attuale è perciò impreparato ad affrontare, come si diceva un tempo, una “una buona morte”, quale naturale conclusione della vita, o comunque, come passaggio a un’altra vita. Il che del resto è scontato - senza per questo voler dare giudizi di valore - in una società, come questa, che nega l’Aldilà. E dove, di conseguenza, morire significa quasi sempre sparire e perdere le “dolcezze” consumistiche della vita: se il “paradiso” è in questo mondo, la morte non può non essere vissuta come un’ingiustizia ( e negata, o quanto meno scacciata )... Ecco però, che di colpo, Piergiorgio Welby, col suo corpo dolente, richiama tutti alla nuda e atroce realtà della morte.
In secondo luogo, la nostra società è profondamente segnata dall’individualismo. Ma da un individualismo di tipo particolare, da alcuni definito “assistito” o “protetto” Nel senso che i diritti individuali devono essere ( e sono) garantiti da strutture pubbliche: dal potere sociale. L’individuo è libero di decidere ma all’interno di un “percorso” istituzionale e societario obbligato. Che in certo senso, finisce per condizionare, spesso pesantemente, la decisione del singolo. Si pensi alla tutela del diritto al lavoro, alla salute e all’istruzione, affidata per legge ai controlli di occhiute e impersonali burocrazie. Si può perciò parlare di diritti individuali “vincolati” al riconoscimento di un potere sociale o pubblico, talvolta inefficiente, che si manifesta e concretizza attraverso leggi, regolamenti e funzionari. Ecco però, che all’improvviso, Piergiorgio Welby, rivendica esplicitamente, davanti a una società che si illude di essere libera, il diritto individuale di morire, rifiutando mediazioni politiche e burocratiche di qualsiasi tipo.
Quali conclusioni? La miscela tra rifiuto della morte e individualismo assistito, potrà condurre, prima o poi, solo a qualche cattiva legge, approvata magari in fretta, che riconoscerà a burocrazie legali e mediche l’ultima parola sulla vita di uomini e donne. Si pensi, ad esempio, alle difficoltà insite nella strutturazione stessa di protocolli medici “sicuri” in materia. Oppure al rischio di “routinizzazione” dell’ iter di accertamento medico-legale dei requisti per aver “diritto” alla “morte assistita” o “protetta” (il termine non è nostro, ma dei sostenitori di una legge in materia). Ma, allora, che fare? Difficile dire. Purtroppo, la sola scelta, è quella tra l’attuale divieto di darsi da soli una morte liberatoria e l’approvazione di una legge che deleghi a notai, giudici e medici un potere di vita e di morte sugli individui.
Molti penseranno meglio una cattiva legge che nulla… Certo, ma può essere definito libero un individuo la cui sorte finale rischia di dipendere dal potere sociale o pubblico?
Carlo Gambescia

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