venerdì 1 dicembre 2006


Analisi
Gruppi di pressione, questi sconosciuti...



Quando in Italia si parla di lobby, il pensiero va subito a certi film americani, da ultimi quelli di Michael Moore, dove si affronta senza peli sulla lingua, il problema del ruolo, spesso corruttivo, giocato dai gruppi di interesse. Così come viene subito naturale formulare critiche e fare paralleli tra la realtà americana e le tante Tangentopoli italiane ed europee.
In realtà esistono due scuole di pensiero.
La prima scuola riflette la posizione degli "adoratori" dell’America, ad esempio la grande stampa, un tempo detta, "confindustriale", i liberisti e i "liberal" annidati in tutti i partiti, i tecnocrati formatisi negli Usa, gli intellettuali "amici" dell’America. Per costoro, casi di corruzione (come ad esempio quello, non più recente, di Abramoff, il repubblicano corrotto e corruttore) non sarebbero altro che l’eccezione che conferma la regola: la classica mela marcia, che una volta eliminata, consentirà al sistema delle lobby, che negli Usa come è noto è legalizzato, di tornare a funzionare meglio di prima. E garantire così quella "trasparenza" degli interessi", negata invece in Italia, dall’assenza di una legge che regoli in termini di "prevenzione" i rapporti tra affari e politica.
La seconda scuola di pensiero raccoglie il diffuso antiamericanismo di certa sinistra e destra radicali. E vede nella legalizzazione delle lobby solo una forma di ipocrisia: un formalismo furbo che, come mostrerebbero certi scandali, serve a coprire i maneggi del gruppo di potere repubblicano vicino al a Bush. Quanto alla possibilità di introdurre in Italia un sistema del genere, lo zoccolo duro della sinistra-destra antisisistemica, giudica il ruolo dei gruppi di interesse alla stregua di quello delle organizzazioni criminali. E che perciò ritiene valido come unico deterrente, non la legalizzazione, ma la "repressione".
A dirla tutta hanno torto entrambe le scuole. Gli "adoratori" dell’America che ne celebrano un capitalismo azionario e "impersonale", che però ha bisogno di "personificarsi" in gestori e lobby particolari. E che per giunta, come tutti i "devoti", credono di poter estendere meccanicamente all’ Italia, una legislazione che in America si è sviluppata per tentativi ed errori, a partire dal 1946 (Lobbyng Act), e che ancora oggi risulta insoddisfacente. Ma sbagliano anche gli "antiamericani" che vedono, sulla scorta dei film di Moore, solo complotti orditi da potentissimi lobby politico-economiche, con Bush come burattinaio. E che giudicano il capitalismo statunitense un puro e semplice prolungamento della macchina bellica.
C’ è invece una differenza di fondo che gli uni e gli altri non colgono. E in questo senso sarebbe utile rileggere il libro di Albert O. Hirschman, Le passioni e gli interessi , che non si occupa di lobby ma di storia della cultura. Secondo lo studioso esistono culture dominate dalla passione e culture dominate dagli interessi. Ora, andando oltre Hirschman, si può dire che la cultura americana è una tipica cultura degli interessi "diffusi", e che in quel contesto è venuto naturale legalizzare le lobby, e ricondurre il rapporto tra politica ed economia a un puro semplice "equilibrio" di interessi in gioco. Per contro la cultura italiana, è un cultura delle passioni "concentrate" per eccellenza, come è storicamente documentato, almeno dal romanticismo in poi, dal ruolo esercitato dalle ideologie e dall’intensità degli scontri politici.
Perciò difficilmente potrà da noi attecchire qualsiasi forma di regolazione. In Italia gli interessi sono sempre stati "attraversati" da forti passioni, politiche, personali, e spesso familistiche.
Esageriamo? L’Italia non è forse il paese del grande capitalismo familiare? Che senso avrebbe per un Agnelli, rivolgersi al lobbysta, quando da generazioni è abituato a trattare alla pari con i più diversi capi di governo (da Giolitti a Prodi e Berlusconi, passando per Mussolini)? E lo stesso discorso potrebbe essere fatto per altri paesi europei, come la Spagna ad esempio.
Quanto poi alle differenze tra capitalismo italiano e americano, si può solo dire che ogni paese ha il capitalismo che si merita. Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia

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