martedì 9 maggio 2006


  

Un report di Stephen Roach 
Non solo investimenti




Su "Repubblica - Affari & Finanza" di ieri sono apparsi alcuni stralci di un "Report" per clienti della Morgan Stanley, redatto da Stephen Roach, Chief Economist e Managing Director della grande banca d'affari americana. Istituto che dispone di uno staff di 500 economisti, dislocati in tutto il mondo, tutti monetaristi e liberisti, allineati alla politica Usa.
Le previsioni di Roach per l'economia mondiale sono rosee. Secondo l'economista americano tre sarebbero i fattori positivi: a) la crescita equilibrata dell'economia mondiale; b) il controllo dell'inflazione mondiale attraverso la "redistribuzione" della produzione su scala mondiale; c) la capillare estensione dei controlli del FMI, ormai estesa a tutte le nazioni. "Oggettivamente -scrive Roach - dobbiamo constatare che il mondo non è stato mai così bene".
Ora, indubbiamente, dietro la pubblicazione degli stralci, ci sono ragioni di bassa cucina economico-giornalistica: invogliare i lettori-clienti di "Repubblica" e della Morgan Stanley a investire. Fatte ovviamente le debite proporzioni tra i due target. Ma questo è solo un aspetto, e minore, della questione.
Il vero punto è che l'ottimismo e il fondamentalismo  economicista  di Roach - che sul piano dei fatti può essere contestato punto per punto - ha una precisa funzione di legittimazione ideologica di un nuovo ordine politico mondiale, il cui braccio militare e politico è rappresentato dagli Stati Uniti.
Del resto non è credibile parlare di sviluppo equilibrato sulla base degli attuali differenziali di crescita tra Stati Uniti (3,4), Area Euro (2,1) da una parte , e Cina (9,5) e India (7,3) dall'altra. Per non parlare degli effetti socialmente nefasti delle delocalizzazioni (la "redistribuzione della produzione su scala mondiale"), dell'alto prezzo del petrolio (che non ha precedenti, almeno nell'ultimo sessantennio). E dei crescenti e irrisolti problemi ambientali sociali e umani, che si vanno profilando, proprio dove il tasso di sviluppo risulta più elevato, come in India e Cina.
Di più: va tenuto presente un importante dato storico-economico. Negli ultimi sessant'anni lo sviluppo economico ha conosciuto una fase crescente, negli anni Cinquanta e Sessanta ( con tassi altissimi, quasi il doppio di quelli cinesi di oggi), per poi entrare negli anni Settanta (e il fenomeno è ancora in atto), in una fase, non di desviluppo, ma di basso sviluppo economico (con tassi di crescita di due terzi inferiori ai tassi degli anni Cinquanta e Sessanta, compresi nella media mondiale i tassi cinesi e indiani di oggi). Perciò per dirla con Kondratieff, a una fase espansiva del ciclo capitalistico, ne è seguita, dagli Settanta in poi , una depressiva (a prescindere dai successi di immagine e ai progressi delle tecniche comunicative e dei relativi alti profitti settoriali). Si dirà che si tratta di un'analisi che scorge solo i lati negativi. Tuttavia a pensar male...
Comunque sia,  a questa fase depressiva sul piano economico, se ne è affiancata un'altra di tipo espansivo sul piano geopolitico, apertasi con la dissoluzione dell'Unione Sovietica, e la conseguente fine del bipolarismo. E l'elemento ideologico di raccordo tra i due fattori, nel senso di una legittimazione del nuovo potere politico-militare Usa,  è rappresentato dal liberismo economico (un liberalismo decisamente appiattito sul mercato), che per un verso giustifica la fase depressiva, mascherandola come espansiva, e per l'altro legittima la globalizzazione economica e militare americana (ed europea), come una vittoria della libertà di mercato nel mondo.
L'aspetto più importante  è che si è solo all'inizio di una nuova fase storica. E' in atto, infatti, la costruzione di un ordine politico a guida euro-americana (con l'Europa in subordine però...).  Il che  spiega  l'enorme e capillare sforzo mediatico per giustificare e sostanziare ideologicamente, il nuovo edificio politico. E chiarisce anche il ruolo di interventi, come quelli di Roach, e le prontissime "amplificazioni" su piccola scala di "Repubblica". 

Carlo Gambescia

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