lunedì 29 maggio 2006



Quando una catastrofe naturale colpisce un paese povero
Terremoti: Istruzioni per l'uso


Nel 1755 un terremoto distrusse Lisbona, città ricca e splendida, provocando circa quindicimila morti. La sciagura, all’epoca di proporzioni enormi, innescò un dibattito a distanza tra le maggiori figure intellettuali del periodo, che durò a lungo. A un Leibniz, che molti anni prima della tragedia aveva definito la presenza del male nel mondo come funzionale a un disegno divino, rivolto al bene dell’uomo, si opposero Voltaire, Rousseau e in seguito Kant. Tutti d’accordo nel respingere l’idea di qualsiasi interferenza divina. E soprattutto pienamente convinti, pur con accenti diversi, della natura umana o comunque terrena del terremoto.
Nel dicembre 2004 - meno di due anni fa... - un maremoto di proporzioni gigantesche ha sconvolto il Sud-Est asiatico, provocando centinaia di migliaia di morti. Ora, pochi giorni fa se ne è abbattuto un altro su Giava, di dimensioni più ridotte, ma che comunque ha provocato migliaia di morti.
E' presto, e probabilmente per il momento fuori luogo (prima vengono i soccorsi...), parlare di giustizia divina o meno. Mentre sui media, come al solito, si è iniziato a parlare, e a sproposito, delle responsabilità umane. Generalizzando e senza fare inutili citazioni, ricordiamo le tre principali posizioni che di solito emergono quando un paese povero viene colpito da un terremoto : la tecnocratica, la razzista e quella no global o terzomondista. E' un'utile griglia per capire.
I tecnocrati, se la prendono con l’arretratezza di quei paesi: l’assenza di sistemi di segnalazione moltiplicherebbe ogni volta i danni a cose e persone; l’assenza di una burocrazia efficiente appesantirebbe invece l’opera dei soccorsi; la corruzione e l’autoritarismo impedirebbero la diffusione di informazioni e notizie, soprattutto sulla sorte - ecco di che cosa si preoccupa l'Occidente - dei numerosi turisti europei, americani. australiani, eccetera.
I razzisti, se la prendono invece con gli asiatici in quanto tali: il proverbiale fatalismo asiatico impedirebbe la costruzione di edifici a prova di sisma. Nel dicembre del 2004, dopo il maremoto che aveva sconvolto il Sud- Est Asiatico, alcuni scrissero che il "vivere alla giornata", tipico dell'asiatico, aveva condotto quelle popolazioni a dormire ( e morire) sulle spiagge... E che inoltre, solo la "totale mancanza di senso morale", poteva aver spinto gli esercenti locali a riaprire locali notturni, ristoranti e bar nei giorni successivi al maremoto, nonostante “l’odore di morte che si diffondeva nell’aria”.
I no global, chiamiamoli così per brevità, se la prendono con l’Occidente. Che continua a sfruttare i popoli asiatici e le risorse naturali del pianeta. Di qui il turismo sfrenato e indecoroso agli occhi di chi si nutre di un pugno di riso. Le capanne sulla spiaggia, la prostituzione, l’assenza di una classe politica indipendente, di scienziati e tecnici locali, capaci di studiare i terremoti, capirli, o comunque prevenirli.
Da quale parte è la ragione? I tecnocrati sognano un mondo, razionale e organizzato, che non esiste neanche in Occidente. I razzisti, hanno bisogno di capri espiatori. E inoltre di solito si occupano di terremoti in Asia, solo quando quelle le "splendide" spiagge asiatiche sono piene di turisti occidentali. I no global, qualche ragione l’avrebbero... Ma va alzato il il tiro: va messa in discussione, l' “economia della dipendenza” e la divisione capitalistica dei fattori produttivi su scala mondiale. Ma come? Su quali basi teoriche, economiche e politiche? E con quali alleati?
Insomma, per riprendere il titolo di un bellissimo libro di Conrad, Sotto gli occhi dell’Occidente, ambientato tra gli esuli russi prima della Rivoluzione, l’Occidente continua a rincorrere il mito del progresso e non capire quel che accade sotto i suoi occhi. Discute, per certi aspetti oziosamente, di come prevenire i terremoti (o magari di “abolirli”), di risorse, di corruzione, e pur guardando non vede, almeno due cose fondamentali: primo, la dignità che gli asiatici di solito mostrano quando si trovano in circostanze così avverse, un dato che dovrebbe far riflettere quell’Occidente che spesso sa solo singhiozzare sulle colpe dell’uomo bianco; secondo, la nostra costitutiva fragilità, perché in qualsiasi momento potremmo essere “spazzati via” da una catastrofe naturale o altro… Una precarietà, che spingeva Leibniz a dire, che proprio per quegli attimi di autentica felicità che l'esistenza , sempre legata a un filo, talvolta concede, la vita merita di essere vissuta.
Certo. Ma aiutando chi è "meno felice" di noi. E senza lederne la dignità. Questo è il vero problema.

Carlo Gambescia

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